di Olimpia Capitano*
In questi giorni si è parlato molto dell’assalto alla Cgil del 9 ottobre, mosso da gruppi neofascisti. Il parallelismo con lo squadrismo è stato immediato. Ma è utile (e per chi) parlarne senza inserire questo discorso in una lettura storica della politica italiana? Partiamo da cent’anni fa esatti, siamo nel primo dopoguerra e la situazione economica sociale e politica italiana è drammatica. O meglio, siamo all’interno di una lunga ondata del conflitto, che dopo l’armistizio inizia a spazzare via il sollievo di una guerra conclusa, lasciando dietro a sé macerie e tensioni palpabili.
La crisi è trasversale, sia a livello economico e sociale, sia sul piano politico e istituzionale. È una crisi che tocca, in modo ovviamente diverso, sia chi partiva da posizioni più agiate, sia chi partiva da indigenza, marginalità sociale o sfruttamento lavorativo. I primi vivono deprivazione e frustrazione; i secondi giungono a un punto di non ritorno, per cui c’è ben poco da perdere e una ristabilizzazione delle precedenti condizioni sembra irricevibile. In tale situazione il ceto di governo è debole e la contraddizione tra vittoria militare e criticità economiche e
sociali determina un’organica crisi di autorità: gli operai intanto parlano di “fare come in Russia” e la classe dirigente ha paura, pensa agli strascichi del biennio rosso, allo “spettro che si aggira per l’Europa”.
Milioni di persone sono tornate dalla guerra, si sono abituate alla “normalità della violenza” e ora si trovano disoccupate e a vivere disagi materiali e psicologici. In questo contesto si sta articolando il primo fascismo e, in particolare, la sua componente squadrista, largamente composta da ex combattenti, di variegata provenienza sociale, spesso lautamente finanziati dalla borghesia.
C’è una testimonianza interessante che riguarda Torino ed è una frase di Cesare Maria De Vecchi, primo presidente dell’Associazione ex combattenti torinese, poi importante personaggio del fascismo locale e quadrumviro in occasione della Marcia su Roma: “Appena cominciata l’occupazione delle fabbriche, la sede dell’associazione combattenti fu presa d’assalto da
numerosi rappresentanti di industriali che a colpi di biglietti da mille cercavano di barattare la loro difesa con il nostro intervento”. Ci sono anche le parole di un altro ex combattente torinese, poi squadrista, che dice: “Noi pestavamo i sovversivi però in fondo i sovversivi facevano il loro sporco mestiere. E correvano almeno il rischio di essere trattati a fucilate, quella che faceva schifo era la media e grassa borghesia italiana”. La composizione sociale del movimento che gravitava intorno al primo fascismo era estremamente varia. Insomma, spesso i fascisti facevano affari con gli industriali, ma altrettanto spesso agli squadristi torinesi la famiglia Agnelli non piaceva proprio per niente.
Andiamo però in un’altra città, Livorno, emblematica poiché qua nel primo dopoguerra troviamo un terreno particolare, di “elementi raccogliticci, evasi, profughi, levantini, ebrei, in numero questi rilevantissimi. Educazione e religione non hanno mai fatto breccia in questo popolo, tanto che oggi il difetto principale delle masse è la mancanza di ogni puro sentimento di civismo e di attaccamento ai sentimenti del dovere, terreno fertilissimo quindi per le idee sovvertitrici”: così avrebbero affermato alcuni fascisti locali. A Livorno nel 1921 c’è una giunta socialista e qui a gennaio di quell’anno è nato il Partito comunista d’Italia. Sempre qui il fascismo non riesce a penetrare politicamente e la classe dirigente, specie quella industriale, ha parecchio timore in seguito ai fortissimi tumulti del biennio rosso: la violenza squadrista diviene uno strumento di reazione centrale. In particolare, ci si accanisce contro luoghi importanti per il mondo proletario e contro la giunta socialista. Il tutto con il frequente sostegno finanziario degli industriali e con il beneplacito di larga parte delle forze dell’ordine pubblico e delle forze militari.
Facciamo un esempio. Al momento della conquista fascista della città sono proprio l’esasperazione della violenza squadrista e la connivenza di parte delle forze istituzionali a determinare l’abbandono da parte della giunta: poco dopo la marcia su Roma, forti del cambiamento dei rapporti di forza, arrivano a Livorno pattuglie squadriste da tutta la Toscana: Pisa, Montopoli, S. Maria a Monte, Cecina, Calci, Santa Croce sull’Arno, Navacchio, San Romano, Volterra, Grosseto. Dopo consistenti scontri cittadini i fascisti, aiutati da guardie regie e carabinieri, prendono simbolicamente possesso del Palazzo comunale e Dino Perrone Compagni, segretario politico del fascio, si esprime in maniera minacciosa, dichiarando dal balcone che tutta la giunta doveva dimettersi e abbandonare Livorno entro tre ore; “in caso contrario vi impiccherò in piazza”. Nello stesso giorno e nei successivi vengono completamente distrutte la federazione del Partito socialista, la sede del Partito comunista, sedi e circoli repubblicani anarchici, le cooperative di consumo, la Lega dei contadini, la Camera confederale del lavoro e la Camera sindacale. Caduta la giunta e abbattuti i luoghi-simbolo della sinistra, il centro è percorso da una manifestazione di tutte le destre cittadine, comprendenti rappresentanti del potere economico e industriale, nobili, monarchici, associazioni dei veterani di guerra, sindacalisti fascisti. Tanti sono stati liberali e lo sarebbero tornati allo scadere del ventennio, oscillando tra posizioni politiche diverse, purché utili al mantenimento delle loro posizioni di privilegio e potere.
Ci sono però anche molti cittadini che verosimilmente nessuno ha notato durante gli scontri dei due anni precedenti. Non sono militanti, non sono fascisti convinti. Sono diventati sostenitori passivi di un fascismo dell’ultim’ora, vuoi per paura, per interesse, per foga o flebili convinzioni o per chissà quale ragione più o meno soggettiva. Resta però, di nuovo, il dato non scontato della composizione sociale tanto eterogenea di questi gruppi.
Guardare a questi fenomeni non ci parla solo di alcune tipicità del primo fascismo, ma può raccontarci molto della nostra storia politica nazionale e, dunque, anche di alcuni percorsi che ci portano all’oggi. Anzitutto emerge una tendenza. Si tratta della tendenza delle classi dirigenti a fissare la propria inamovibilità, spesso attraverso forme di conservazione del potere legate alla logica gattopardiana del tutto che cambia perché tutto resti com’è. In questi passaggi si creano rapporti ed equilibri con forze politiche apparentemente nuove e, talvolta, si ricorre anche a formule apertamente reazionarie e violente. Con i fascisti è successo qualcosa di simile, ma non è stato niente di così nuovo.
Già in epoca liberale, nell’Ottocento, specialmente se pensiamo a Torino o alle campagne bolognesi e padane e alle classi dirigenti di industriali e agrarie che vivono lo sviluppo dell’Europa prebellica, questo aspetto è evidente. In quel momento, dopo i fatti di Milano del 1898 e dopo le famigerate cannonate del generale Fiorenzo Bava-Beccaris, una parte della classe politica inizia a pensare che sia controproducente reprimere nel sangue la protesta sociale e usare per questo le forze di polizia. Appena i ceti proprietari iniziano a percepire il rischio di non poter più godere della repressione preventiva delle forze dell’ordine al minimo accenno di sciopero o mobilitazione bracciantile – “rischio” di fatto raramente verificatosi – iniziano a pensare che sia necessario fare da sé. Alcune compagnie, come la Società per la bonifica dei terreni ferraresi, creano corpi di polizia privati e iniziano a provocare incidenti e scontri, utili poi a giustificare la repressione statale. Si creano nuovi equilibri, poi la guerra, la crisi, la crescita delle tensioni sociali, il fascismo. È interessante notare che dietro a queste strategie ricorrenti spesso stanno avvocati, ingegneri, agronomi, industriali, imprenditori: la creazione di corpi armati privati e l’accordo sostanziale con le forze politiche di turno appare così come il risultato dello sviluppo capitalistico, funzionale al mantenimento di alti livelli di produttività, anche attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e con chiare influenze sulla classe politica e sul ridisegnamento dei suoi equilibri.
È rilevante pensare a queste tracce di continuità che attraversano la Storia politica nazionale e guardare a episodi recenti come alla repressione poliziesca delle proteste degli operai della Text Print di Prato; come all’omicidio Adil Belakhdim, coordinatore dei Si Cobas; o ancora come al manipolo di sconosciuti che, al posto della vigilanza aziendale, ha cercato di sbarrare l’ingresso in fabbrica dei 422 lavoratrici e lavoratori della Gkn, licenziati in tronco via mail dal gruppo finanziario Melrose.
Si pone sostanzialmente un campanello d’allarme ma, d’altro canto, la Storia svela anche l’eterogeneità sociale di questi fronti apparentemente contrapposti in modo netto e può insegnarci a non semplificare. L’assalto alla Cgil di sabato scorso è stato effettivamente mosso da un gruppo di neofascisti e ci rievoca atmosfere e pratiche che fanno paura. Questo fatto esprime però dei problemi strutturali: manca in Italia una memoria storica del fascismo, di come è nato, di cosa è stato e di come si è evoluto lasciando profonde eredità nel tessuto sociale e politico italiano. In questa confusione diventa facile far diventare l’antifascismo un concetto ombrello che racchiude sotto la stessa egida forze politiche completamente diverse e che si definiscono antifasciste solo per contrapposizione a un generico “nemico fascista”.
Il nemico però viene banalizzato e generalizzato: in questo caso, ad esempio, si è dipinto come fascisti tutti coloro che abbiano partecipato alla manifestazione di sabato – cosa però molto diversa dall’assalto che ha visto il coinvolgimento di un esiguo numero di persone. Al di là del giudizio personale sulla questione green pass, va considerato che in piazza stavano tante persone che per varie ragioni personali e politiche hanno una posizione critica nei confronti della misura. C’era poi soprattutto chi anche oggi sta subendo le conseguenze di una crisi economica e sociale trasversale, che radicalizza il ceto medio e che marginalizza ulteriormente lavoratrici, lavoratori e disoccupati, in un contesto in cui la politica non riesce a dare risposte e viene rifiutata in blocco. Disegnare le piazze che portano avanti opposizioni alle scelte del governo come complottiste, negazioniste, no-vax e via dicendo serve a creare nemici e unire le forze governative, ma è una forzatura lontana dalla realtà delle cose. È al contempo un modo di spostare l’asticella dell’attenzione, cancellando i disagi concreti e annullando in partenza la possibilità di avere qualsiasi approccio critico – in tal caso rispetto a diversi nodi problematici del green pass stesso, e in particolare all’obbligo di esibirlo nei luoghi di lavoro.
Semplificare così è utile alle destre estreme, che benché ancora numericamente marginali trovano terreno su cui speculare e crescono, ed è utile alle forze di governo, che si ricompattano e svicolano dalle proprie responsabilità sociali e dalle critiche – visto che se non sei d’accordo con il green pass sei automaticamente un complottista fascista. È una convergenza che sembra singolare ma che richiama le solite dinamiche di conservazione del potere, che non si trovano in contraddizione con la scarsissima opposizione all’assalto da parte delle forze dell’ordine.
Ad ogni modo, il pericolo neofascista esiste, è eredità latente e non affrontata della storia nazionale. È dunque importante rifiutare queste nuove forme di attacchi squadristi contro le sedi simbolo del mondo del lavoro. E in effetti domenica 10 ottobre le camere del lavoro di tutta Italia sono state aperte e presidiate con larga partecipazione, e oggi ci sarà una manifestazione nazionale a Roma convocata da Cgil, Cisl e Uil. Altrettanto e più importante è però riconoscere la complessità storica delle dinamiche di conservazione del potere politico in Italia; dell’uso politico del fascismo e della sua composizione sociale molto varia; della necessità di ricostruire politicamente un antifascismo che sia radicato nelle condizioni materiali delle persone e che si sganci da ogni logica a ombrello. I concetti ombrello non ci pongono al riparo né dalle ombre del passato, né dalle ombre del futuro.
*Storica contemporaneista e collaboratrice de il fattoquotidiano.it