Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)
————————————————————————————-
“La judoka Lucia Morico, con la medaglia di bronzo appena conquistata alle Olimpiadi di Atene, tornò a Marotta e fece il giro del paese in Ape car. Nel 2004 avevo appena iniziato ad allenare. Scoccò la scintilla. Un giorno mi sarebbe piaciuto vivere le sue stesse sensazioni”.
Davide Mazzanti, ct della Nazionale femminile di pallavolo che il 4 settembre scorso ha vinto l’Europeo, ce l’ha fatta e Marotta ha organizzato una festeggia anche per lui.
“Una volta rientrato a casa, mi sono finalmente goduto la vittoria di Belgrado. Ho vissuto in pieno la gioia del mio paese, insieme al mio vice Matteo Bertini”.
La coppia Mazzanti e Bertini è il corrispettivo di quella Mancini e Vialli nel calcio?
“Matteo allena Trento in A1. È un grande tattico, uno dei migliori in circolazione. Ha un anno meno di me e siamo cresciuti in via Damiano Chiesa, dove entrambi abitavamo. Suo papà gestiva il bar Acli e costruì un minuscolo campo da pallavolo dietro al locale, là abbiamo trascorso da ragazzi tutti i nostri pomeriggi. Oggi purtroppo non ci sono più né la chiesa né il bar. Io ho iniziato ad allenare prima di Matteo perché lui era bravo a giocare e ha continuato a farlo per più anni. Abbiamo lavorato molte stagioni negli stessi staff, ora proseguiremo in Nazionale fino alle Olimpiadi in Francia”.
Lei non avrà il doppio incarico?
“No, non allenerò nessun club. Ho fatto uno strappo alla regola, andando ad allenare Perugia. Credevo fosse utile rimettermi in gioco in vista delle Olimpiadi e degli Europei”.
Uscire ai quarti alle Olimpiadi, perdendo 3-0 con la Serbia è stato un fallimento?
“Rispetto alle aspettative iniziali, sì. Sono tornato da Tokyo deluso, avevamo immaginato dei Giochi diversi”.
Da Tokyo a Belgrado, dove la Nazionale ha battuto in finale proprio le serbe. Come è stato il percorso?
“Non è stato facile tornare in campo, avevamo perso l’entusiasmo che c’era durante le pre olimpiadi. Ho fatto pochi cambiamenti: una gerarchia più definita e sistemato qualche dettaglio a livello tattico. La differenza tra vincere e perdere è spesso molto sottile. Al rientro in palestra ho faticato a trovare le parole, non volevo usare le stesse che avevano preceduto i Giochi perché avrebbero toccato una ferita ancora aperta. Ho cercato di dare loro una consapevolezza tale che le facesse tornare a giocare bene a pallavolo. Sono state brave, le ragazze. Hanno fatto un gran lavoro su loro stesse”.
Che rapporto ha con le pallavoliste che allena?
“Cerco di essere collaborativo, parlo molto con loro. In vista di Belgrado ho cercato però di essere più direttivo, ho pensato che in quel momento avessero bisogno di questo. Quindi c’è stato un po’ meno dialogo rispetto al solito”.
Si è pentito delle parole dette dopo l’Olimpiade circa il rapporto malsano delle atlete con i social network?
“No, perché io quelle cose non le ho mai pronunciate. Un titolo di un giornale ha modificato totalmente la mia idea. Anzi, avevo elogiate le ragazze, dicendo che al giorno d’oggi è molto faticoso restare concentrati con tanto rumore attorno. Non era un monito né un tentativo di polemica. Io non leggo e non posto nulla sui social, qualcosa in più l’ho pubblicato durante il lockdown ma ho capito che quella è una responsabilità che non è nelle mie corde. Per chi ha molti followers, è tutto molto più faticoso. E le ragazze ne hanno molti più di me, ci vuole poco del resto… Io comunque penso che lo sport abbia anticorpi per resistere ai social”.
In quale modo?
“Oggi i giovani hanno tanti contenuti a cui affidarsi, possono trovare non solo nel web tutto e il contrario di tutto. Ma lo sport, così come la scuola, deve allenare il senso critico. Lo sport può aiutare a capire cosa è importante, la didattica di insegnamento deve essere aggiornata”.
Teme le critiche?
“I giudizi mi hanno sempre fatto soffrire sin da piccolo. Io infatti voglio allenare fuori dai pregiudizi, se etichetti una persona non ti stupisci mai di lei”.
Chi sono stati i suoi maestri?
“Ero al primo anno di ingegneria. Studiavo e aiutavo mio fratello a consegnare a domicilio le bombole di ossigeno per malati. Quell’estate venne ad allenarsi a Marotta la Nazionale Juniores, composta da giocatori miei coetanei. Vidi come lavorava Angelo Lorenzetti, oggi allenatore del Trentino Volley maschile. È stata un’illuminazione. Ho cambiato facoltà e mi sono iscritto all’Isef. Considero lui il mio maestro”.
Altre esperienze formative?
“Poco dopo sono andato al comitato regionale Emilia Romagna e ho comprato tutte le videocassette dei corsi per allenatori che avevano a disposizione. Erano riprese spesso realizzate male, ma mi hanno fatto capire una cosa: ci sono tanti modi di fare pallavolo, spesso anche in contraddizione tra loro. Così ho allenato il mio senso critico”.
In tutti quei vhs ha trovato qualche coach più affascinante degli altri?
“Julio Velasco. Tante cose sentite da lui in quegli anni, le avrei capite meglio nel tempo. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di ascoltarlo da vicino, approfondendo i suoi concetti ancora di più. Ha cambiato la pallavolo, era avanti 20 anni ed ora è ancora attuale. Dopo Belgrado mi ha mandato un messaggio per complimentarsi”.
Vive a Misano con la moglie Serena Ortolani, giocatrice di pallavolo. È stato difficile lavorare con lei?
“Con lei in formazione, ho conquistato tre scudetti. L’anno del primo titolo non eravamo ancora fidanzati. L’ho allenata anche al Mondiale in Giappone nel 2018, dove siamo arrivati alla medaglia d’argento. È stato più difficile per lei che non per me perché è lei che poi entra in spogliatoio con le compagne. Diventa complicato soprattutto quando c’è nel suo ruolo un dualismo con un’altra giocatrice. Ma Serena è un esempio in palestra per come vive la pallavolo e questo aiuta molto”.
La vostra bimba gioca?
“Ha 8 anni e ha appena iniziato con la pallavolo, dopo aver provato ad andare a cavallo. Finora non ha mostrato tanta passione per il volley, ma in questi giorni la sto vedendo emozionata e più partecipe. Ora chiede di giocare anche in casa. Io faccio finta che tutto questo non mi interessi, rispettando i suoi tempi”.
Come vede il futuro della Nazionale femminile?
“Il ricambio generazionale c’è stato già nel 2017. Proseguiremo su questa linea. Per il Mondiale le favorite saranno sempre le stesse: le tre europee (Italia, Serbia e Turchia) e le solite Usa, Brasile e Cina. Bisognerà vedere quanto cambieranno le avversarie”.
Quanti fenomeni ci sono nella sua Nazionale?
“Paola Enogu. Diciottenne era già performante in A1. I talenti invece emergono a 20-21 anni: Elena Pietrini è del 2000, Sarah Fahr del 2001. Ho notato che ora le donne raggiungono l’eccellenza prima di un tempo, non so bene perché ma in passato i talenti uscivano soltanto a 22-23 anni”.
Andrà mai ad allenare una squadra maschile?
“Credo di no, però studio il gioco degli uomini”.
La sua Nazionale ha ispirato nella vittoria quella maschile di Fefè De Giorgi?
“Le vittorie ispirano e mettono pressione. In questo caso i ragazzi hanno conquistato l’Europeo giocando liberi, quindi probabilmente erano solo ispirati”.