Il presidente del colosso padovano, Fabio Franceschi, fa un dietrofront completo rispetto a pochi giorni prima, quando si era detto "colpito e addolorato dagli atti di prevaricazione" per cui i suoi manager hanno patteggiato una pena pecuniaria. Ora, intervistato da La Stampa, accusa i lavoratori in subappalto di aver detto "un mucchio di falsità" e mette in dubbio anche i pestaggi subiti. Poi li irride: "Lo stile di vita dei pakistani? Pulizia e bellezza non sono nella loro natura"
I suoi manager, arrestati a luglio scorso per sfruttamento del lavoro, hanno patteggiato sei mesi di carcere convertiti in 45mila euro di pena pecuniaria. Lui stesso, dando la notizia, si era detto “colpito e addolorato dagli atti di prevaricazione” subiti dagli operai che lavoravano per la sua azienda in subappalto e aveva annunciato di volerli risarcire di tasca propria con 220mila euro. Ma ora Fabio Franceschi, patron di Grafica Veneta – il colosso padovano di stampa e rilegatura coinvolto in un’indagine per caporalato – fa totale dietrofront rispetto a quanto dichiarato pochi giorni prima e, intervistato da La Stampa, insulta con frasi sconcertanti i lavoratori che hanno fatto aprire l’indagine che ha portato ai domiciliari l’ad Giorgio Bertan e il direttore dell’area tecnica Giampaolo Pinton. Lo sfruttamento denunciato? “Un mucchio di falsità”. Cinque di loro a bordo strada, imbavagliati e con le mani legate? “Avevano la mascherina in faccia per calunniarci. Uno era vestito come uno zingaro“. E i pestaggi denunciati? “Parliamo di prognosi di tre giorni”. Nemmeno il fatto che vivessero ammassati, dice, significa nulla: “Loro sono un po’ così, pulizia e bellezza non è che facciano parte della loro natura. Comunque vivevano in otto in una casa grande, due in una stanza. Neanche male“. Per concludere: “Pakistani, nella mia azienda, non ne voglio più. Hanno litigato, si sono bastonati e ci hanno accusato di un mucchio di falsità. E in cinque anni non hanno imparato una parola di italiano”.
Gli 11 lavoratori parti lese sono dipendenti di Bm Services, una ditta con sede vicino a Trento che – secondo la Procura di Padova – faceva da paravento a un’organizzazione criminale pakistana dedita al caporalato. Per Grafica Veneta si occupavano di inscatolare ed etichettare libri. A maggio 2020 uno di loro viene trovato con le mani legate dietro la schiena, dopo essere stato pestato, lungo la Statale 16 a Piove di Sacco. Poco dopo, nei comuni confinanti, ne spuntano altri quattro nelle stesse condizioni. E ulteriori cinque si presentano al pronto soccorso di Camposampiero dicendo di essere stati picchiati, seviziati e rapinati di documenti e telefoni. Il motivo? Secondo il gip, il raid “altro non era che una punizione riservata ai lavoratori che stavano maturando il proposito di ribellarsi (…), recandosi presso un sindacato per avere informazioni sui propri diritti”. Le loro deposizioni, infatti, raccontavano che a fronte di un orario di lavoro di otto ore al giorno se ne svolgevano di fatto “da 10, 12 a un massimo di 16”, non riconosciute in busta paga. Anzi: “Lo stipendio mensile era di 1.100 euro – dichiarava uno di loro – ma mi veniva accreditata una somma inferiore in quanto si trattenevano l’affitto di 120 euro e ulteriori 200, 300 o 400 euro“.
Il tutto, sostiene l’accusa, per aumentare i profitti di Grafica Veneta, che era “perfettamente consapevole del numero di ore necessarie per svolgere il lavoro che appalta e non a caso, disponendo delle timbrature dei dipendenti Bm Service”, aveva “fatto di tutto per non consegnarli alla Polizia giudiziaria”, si legge nell’ordinanza che aveva portato ai domiciliari Bertan e Pinton, poi scarcerati. “Nonostante le solide condizioni economiche e la possibilità di operare in maniera regolare“, spiegava il procuratore di Padova Antonino Cappelleri, i dirigenti erano “riusciti a delocalizzare un settore nella loro stessa sede, appaltando manodopera a prezzi bassissimi“. Il patron Franceschi ha sempre negato che l’azienda fosse a conoscenza dello sfruttamento degli operai. Ora, addirittura, li accusa di calunnia: “Dicevano di lavorare 12 ore al giorno 365 giorni l’anno, cosa risultata falsa. Alcuni, con noi da pochi mesi, sostenevano di non venire pagati da tre anni. Siamo stati additati come schiavisti“. Sul fatto che i loro padroni li picchiassero, dice di non voler entrare nel merito, ma “visto come si sono comportati, è difficile fidarsi sul resto”. Perché allora i manager hanno scelto di patteggiare, di fatto ammettendo di aver commesso dei reati? “La nostra è un’azienda in grande crescita, che non può permettersi di restare concentrata su un problema risolvibile con una sanzione amministrativa. Hanno patteggiato su consiglio degli avvocati e ora sono di nuovo operativi”.