Sommando anche luglio si arriva a 8,3 milioni. Il fenomeno travalica i settori - dai servizi di alloggio e ristorazione a commercio, sanità e servizi professionali - ma anche i confini americani: numeri record sono stati registrati anche in Germania e nel Regno Unito. Stando all'indagine "The great resignation update", il 28% se ne va anche senza avere alternative. In questo l’impatto del lavoro sulla salute mentale viene indicato come motivazione con una probabilità 1,7 volte maggiore della media
Quasi il 3% di tutta la forza lavoro americana – 4,3 milioni di persone – ha lasciato il proprio impiego nel solo mese di agosto. Sommando anche luglio si arriva a 8,3 milioni. È il dato choc che arriva dagli Usa, dove le “Grandi Dimissioni” (Great Resignation o Big Quit) rappresentano un trend che non smette di crescere. Non una tendenza isolata, ma un fenomeno che travalica i settori e i confini americani, e che mette in difficoltà un numero sempre maggiore di aziende alla ricerca di lavoratori qualificati: numeri record sono stati registrati anche in Germania e nel Regno Unito.
Nel solo mese di agosto, secondo gli ultimi dati rilasciati dal Dipartimento del Lavoro, il 2,9% dei lavoratori hanno dato le dimissioni. Si tratta del valore più alto registrato dall’indagine “Job Openings and Labor Turnover Survey” dal dicembre del 2000, oltre 20 anni fa. Le dimissioni, ad agosto, sono cresciute di 242mila unità rispetto a luglio, quando avevano già rappresentato il 2,7% del totale. In particolare, si sono registrati 892mila abbandoni nel settore dei servizi di alloggio e ristorazione (+157mila rispetto a luglio), 721mila dimissioni nel commercio al dettaglio e 155mila nell’ingrosso (rispettivamente in crescita di 39mila e 26mila unità), altre 579mila persone hanno lasciato i loro impieghi nella sanità e nell’educazione. Mentre si sono contati oltre 700mila abbandoni nei servizi professionali e di business e 300mila nel manifatturiero.
Le cosiddette “Grandi Dimissioni” rappresentano infatti un fenomeno che riguarda colletti bianchi, grigi e blu, e per questo sia le grandi banche d’affari di Wall Street come Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, sia le grandi catene della ristorazione e i retailer come McDonald’s, Chipotle e Costco hanno aumentato i salari minimi e quelli dei neo-assunti. Secondo l’indagine “Future of Work” di PricewaterhouseCoopers, che ha intervistato più di 1000 dipendenti full-time e part-time negli Usa e 752 dirigenti aziendali, oltre 6 lavoratori su 10 sono alla ricerca di un nuovo impiego, quasi il doppio rispetto al 36% registrato a maggio dalla stessa indagine. L’88% dei dirigenti aziendali conferma indirettamente la tendenza a una mobilità record dei lavoratori, affermando di vedere in azienda un ricambio di personale superiore alla norma. E le aziende, almeno in teoria, si sono poste il problema: oltre la metà (55%) dei dirigenti intervistati ha affermato che il supporto ai lavoratori vittima di burnout sarebbe stato un fattore molto importante per affrontare l’anno in corso.
In pratica, però, la distanza sembrerebbe non essere stata colmata, come dimostra il “The Great Resignation Update” pubblicato dalla società hr-tech Limeade, la quale ha intervistato 1.000 lavoratori statunitensi a tempo pieno che hanno iniziato un nuovo lavoro nel 2021, in aziende con più di 500 persone e nel nuovo impiego da almeno tre mesi. Il 40% degli intervistati ha indicato il burnout quale motivo di dimissioni nel precedente impiego e il 28% lo ha lasciato anche senza avere alternative in programma, soprattutto nei settori della salute, della ristorazione e dell’ospitalità. Il 34% ha lasciato per cambiamenti organizzativi, mentre il 20% ha indicato quale motivo delle proprie dimissioni la mancanza di flessibilità, la poca considerazione in azienda e le discriminazioni. Coloro che sono andati via senza avere già un altro lavoro hanno indicato come motivo principale per licenziarsi proprio l’impatto del lavoro sulla salute mentale con una probabilità 1,7 volte maggiore della media.
Il fenomeno travalica i settori, ma anche i confini degli Stati Uniti. Nel Regno Unito i posti di lavoro disponibili hanno raggiunto il livello record di 1,1 milioni tra luglio e settembre, il valore più alto dal 2001 secondo i dati di ottobre dell’Office for National Statistics. L’aumento maggiore è stato registrato nel commercio al dettaglio e nella riparazione di auto e moto, ma tutti i settori hanno visto una crescita senza precedenti di posti di lavoro disponibili. Una difficoltà a trovare lavoratori a cui ha senz’altro contribuito la Brexit in alcuni contesti, ad esempio nell’ospitalità come sottolineato dalle analisi dell’Ufficio Nazionale di Statistica, ma è guidata da un trend ormai globale. Anche in Germania, infatti, sempre più aziende lamentano la mancanza di lavori qualificati. A luglio era il 34,6% delle imprese intervistate, secondo un’indagine trimestrale dell’Istituto Ifo. Un valore in netta crescita dal 23,6% di aprile, e il secondo più alto mai registrato. “Con l’economia in ripresa dopo l’allentamento delle restrizioni pandemiche, le aziende hanno difficoltà a trovare personale qualificato”, ha detto l’economista di Ifo, Klaus Wohlrabe. Nella vendita al dettaglio, il numero di aziende che hanno riscontrato carenza di personale è quasi raddoppiato, dal 15,7% di aprile al 30,6% di luglio, mentre nel commercio all’ingrosso si è passati dal 16,1 al 24,7%: nessuno dei due settori ha mai visto una percentuale così alta. Lo stesso è accaduto nel settore manifatturiero, dove a luglio il 27,6% delle aziende ha segnalato una carenza di lavoratori qualificati, rispetto al 19,4% di aprile. Nel settore dei servizi le attività più colpite sono le agenzie di collocamento (75,4%), hotel e altre strutture ricettive (56%) e gli spedizionieri (54,6%).