C’è un’Italia silenziosa. Di “Italie” ce ne sono molte perché molte sono le occasioni per dividersi. Il nostro è un Paese che procede per episodi, così dannatamente importanti da spezzarci in fazioni e presto dimenticarcene. Viviamo una lacerazione continua tra favorevoli e contrari a prescindere, di nuovo destra e sinistra (per qualche tempo fu politica e antipolitica), tifoserie da salotto, plotoni da social, indignati e no-qualcosa. Italie che non avanzano ma saltellano da un episodio all’altro, spesso azzuffandosi, di solito comunque strepitando.
Ma c’è, sempre, un’Italia silenziosa. Non è muta ma anzi parla e fa, solo non cerca il clamore. Qualche giorno fa ne ho incontrato un pezzetto e sono rimasto impressionato, assolutamente impressionato, dal garbo con cui raccontava ciò che a me pareva straordinario.
“La nostra storia può aiutare altri a superare la diffidenza che divide le persone”. Accade nell’inverno del secondo Covid, mentre molte Italie procedevano a tentoni, che un’educatrice notasse T. durante un’attività di doposcuola. T. va seguito con una cura propria: alle difficoltà d’apprendimento aggiunge certe relazioni abrasive coi compagni. Capita spesso che indichino le sue scarpe perché hanno buchi da cui si divincola l’alluce. Inevitabilmente le difficoltà economiche della famiglia ricadono su T., bambino fragile che per non frantumarsi, sorride. Le nuove scarpe arrivano presto, regalo dell’educatrice, ma non bastano a scavalcare tutte le difficoltà. Che sono più grandi. A volte certe famiglie scivolano via.
Quando il Covid allaga di nuovo le scuole, la didattica a distanza apre all’educatrice una finestra dentro casa di T. Mentre curvo su un tavolo fa i compiti, alle sue spalle si delinea appena una cucina scheletrica, un fornellino e nient’altro. Un giorno la madre di T. ha bisogno della stanza per cucinare e il bambino si sposta in “salotto”: le pareti coi mattoni forati e il cemento a vista, un palo e fil di ferro a reggere il velo di una tenda. Dallo schermo si sente il freddo.
Un pensiero per Natale è la carezza dell’educatrice per andare a trovare T., annodare una relazione coi suoi genitori, vedere se la “casa” che ha intravisto è vera. T. non ha una camera sua, o meglio ce l’ha ma non è una camera: mancano i mobili, mancano gli infissi, manca il pavimento. A ogni parola, in ogni stanza, l’alito si condensa.
In quella casa l’aria è così pizzuta che la madre di T. si ammala: polmonite e ricovero. L’educatrice, che è appena una ragazza dagli occhi puliti, perde il sonno. Una sera, incapace di sostenere il pensiero del freddo e della solitudine in cui T. stava dormendo, lei chiede aiuto ai suoi genitori. Racconta del bambino che sorride per non battere i denti.
La solidarietà non è una logica, non ha ragioni: è un’urgenza, senza incertezze. Così all’indomani i genitori dell’educatrice stanno già rimediando agli affanni di quella famiglia che nemmeno conoscevano fino al giorno prima. Ma loro due non bastano e a loro volta chiedono supporto. E quando anche chi accorre dopo di loro non basta, altri, a loro volta chiamati da altri, accorrono.
In quella casa tagliente e fragile come vetro, trenta persone qualunque si guardano in faccia. Alcuni si conoscono da una vita, altri devono ripetere il nome più volte prima che il gruppo lo memorizzi, ma tutti sanno esattamente cosa devono fare.
Un mese e mezzo: tanto serve per rimodellare un rudere in una casa. Chi poteva veniva a dare una mano alla sera, dopo lavoro; chi lavorava di notte veniva di giorno; chi ha imbiancato, chi ha traslocato, chi ha donato mobili e chi denaro. C’è chi ha messo a disposizione otto operai e ci sono gli otto operai stranieri – e lo sottolineo – che, entrati in casa senza potersi togliere il giubbotto, hanno rifiutato di essere pagati per quel lavoro. La solidarietà è un’urgenza, lo ripeto.
Una torta alla “nuova famiglia” è stato il grazie dei genitori di T. ai fratelli e alle sorelle che d’improvviso la vita ha posto al loro fianco per sdebitarsi dei giorni più neri. Da allora non si sono più lasciati, famiglia allargata come si fa al sud.
C’è un’Italia silenziosa, ed è ciò che fa ben sperare.