Il ddl 2285 ridefinisce l’attività di ricerca e il reclutamento dei ricercatori nelle università e negli enti pubblici e insieme ai fondi del Pnrr si prefissa di rilanciare il mondo della ricerca italiano. Ma M5s e sindacati esprimono più di un dubbio sulla bontà del testo arrivato a Palazzo Madama
“La mia vita è cambiata quando a 33 anni ho avuto il primo contratto a tempo indeterminato. Ho vinto un concorso e così ho lavorato molto di più e meglio di prima, quindi so quanto può essere importante tutto questo”. Sono le parole che Maria Chiara Carrozza, ex ministro dell’Istruzione e dell’Università, fisico, attualmente presidentessa del Cnr, ha usato in Senato durante le audizioni del disegno di legge 2285 che ridefinisce l’attività di ricerca e il reclutamento dei ricercatori nelle università e negli enti pubblici. La legge, insieme ai fondi del Pnrr, si prefissa di rilanciare il mondo della ricerca italiano, ma il testo approdato a Palazzo Madama rischia di introdurre nuove figure precarie e modificare l’unica norma approvata alla Camera che limita fortemente l’esplosione di concorsopoli negli atenei.
I recenti scandali dell’università Statale di Milano, in cui sono coinvolti nomi di spicco, come il virologo Massimo Galli, hanno acceso l’ennesimo campanello di allarme sul mondo accademico italiano. “La comunità scientifica è sana. Ha anticorpi a sufficienza per reagire e autogestirsi – ha affermato la ministra Maria Cristina Messa davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a proposito dei concorsi pilotati nel suo vecchio Ateneo – Episodi isolati e circoscritti che fanno rumore e danno”. Eppure le dichiarazioni del professor Galli sono molto chiare sotto questo punto di vista: “Potrei citare casi infiniti di persone la cui carriera è stata pilotata e il cui nome compare in lavori che non hanno nemmeno letto” , aveva detto al Quotidiano Nazionale nei giorni scorsi. Non solo. La stessa ministra nei primi giorni dello scandalo meneghino aveva dichiarato che “esistono una serie di regole che però ancora non riescono a eliminare dai concorsi opacità e scelte personali né a darci la spinta ad aprire gli atenei all’esterno per selezionare i candidati migliori”. Bisognerebbe domandarsi a questo punto dove siano gli anticorpi che un medico come la ministra dovrebbe conoscere bene.
“L’iter del ddl alla Camera è durato più di due anni, nonostante siano cambiate tre maggioranze diverse e quattro ministri siamo riusciti a portarlo a conclusione, anche per volontà dell’attuale ministra – racconta a Ilfattoquotidiano.it Alessandro Melicchio (M5S), relatore del testo di Montecitorio – La legge punta a ottenere una serie di obiettivi: valorizzazione del dottorato di ricerca, un contenimento della figure precarie nell’Università e l’intervento più importante secondo me nella composizione delle commissioni concorsuali”. Un terzo delle posizioni vengono bandite per membri esterni all’ateneo e la maggioranza dei membri delle commissioni giudicanti sono estratti tra docenti (associati o ordinari), dirigenti qualificati di enti pubblici, primi ricercatori, esterni all’università dove viene bandito il posto e differenziati per settori che riguardino la specifica materia del bando. “Di fatto ciò renderebbe quasi impossibile pilotare un concorso – spiega l’onorevole – ma gli emendamenti presentati al Senato da Pd, Italia Viva e Fratelli d’Italia vanno nella direzione opposta”. Reintroducendo di fatto la possibilità di cooptazione. Ad esempio l’emendamento dei Democratici Rampi e Marilotti inserisce la nomina diretta da parte dell’Ateneo fino a due membri tra i docenti della stessa università.
“Prima dell’approvazione alla Camera – continua Melicchio – ho avuto varie richieste di cambiare questo passaggio da ambienti esterni al Parlamento. Perché c’è un altro tema da evidenziare, in tanti vorrebbero legittimare la cooptazione in Italia”. E se gli emendamenti dovessero essere approvati ci sarebbe uno scontro interno alla maggioranza, come conferma il deputato: “Da quello che so i membri dei Cinquestelle in commissione al Senato non voteranno a favore”. A fare pressione alla maggioranza è lo stesso mondo accademico, Conferenza dei Rettori (Crui) e Consiglio Universitario Nazionale (Cun) su tutti. Che in un documento presentato in audizione hanno espresso “preoccupazione per l’autonomia degli atenei” e per il rischio che vengano estratti commissari che non conoscono la materia di cui tratta uno specifico bando.
“Non si tratta solo di etica del mondo accademico. Un sistema universitario definanziato come il nostro – spiega a Ilfattoquotidiano.it Francesco Sinopoli, segretario Flc Cgil – ha fatto aumentare i precari, che ha fatto aumentare il lavoro gratuito e sottopagato, ha limitato di fatto enormemente le sue potenzialità”. Quando si mettono meno soldi in un sistema che privilegia la retorica del “maestro di” all’interno degli Atenei – basti vedere quanto siano poco attrattive le università italiane per i ricercatori stranieri e non viceversa – la probabilità che una carriera venga pilotata aumenta. Ma Sinopoli avverte: “Il problema principale di questa riforma è che non ha ancora un finanziamento. Se le risorse del Pnrr non verranno legate a una spesa corrente ed equivalente da parte dello Stato, dove ora abbiamo uno squilibrio tra ricerca di base e trasferimento tecnologico alle imprese, non riusciremo mai a recuperare quel gap che ci separa dalla media Ocse. Ed è solo con un investimento importante, permanente e progressivo sulla ricerca fondamentale, la scienza che fa fare davvero i salti tecnologici a uno Stato, che possiamo riuscirci”. L’Italia è al 19esimo posto per la spesa in ricerca di base con solo lo 0,34% del Pil, la Germania investe l’1%, la Francia lo 0,7%.
Lo squilibrio di risorse che il Pnrr di fatto dà alle imprese per la ricerca applicata e non alla ricerca di base è stato denunciato anche dal premio Nobel Giorgio Parisi a cui, nei giorni scorsi, ha risposto direttamente Mario Draghi: “Ha ragione, i finanziamenti alla ricerca sono inferiori ai Paesi Ue. Il governo vuole colmare questo divario”, ha assicurato il premier. Ma lo spettro di un nuovo precariato è dietro l’angolo. “Tanto per cominciare, in questo disegno di legge non sono previsti sbocchi per gli attuali precari. Noi chiediamo un bando straordinario di almeno 30mila posti di ruolo – afferma il professor Nunzio Miraglia, coordinatore dell’Associazione Nazionale Docenti Universitari (Andu), che insieme a tutte le sigle di categoria (Flc Cgil, Adi, Cnu, Cisl Università, Rete 29 aprile, Arted, Università Manifesta) ha prodotto un documento sulle modifiche da fare per garantire la fine del precariato – Un’altra questione fondamentale è quella relativa all’abolizione del ricercatore di tipo A e all’introduzione delle borse post lauream, una figura altamente precaria che può durare fino a tre anni e che se non fortemente limitata e circoscritta da eventuali emendamenti sarà lo sfruttato per eccellenza della ricerca italiana”. Se da una parte l’attuale impianto uscito dalla Camera fissa dei paletti precisi per la carriera accademica, con la previsione di un percorso cosiddetto di tenure-track di sei anni dove alla fine si diventa associati, dall’altro si aumenta potenzialmente il periodo di precariato: “Dopo la laurea la figura del borsista può essere prolungata fino a 3 anni, altri tre per il dottorato di ricerca, fino a 5 per l’assegnista e 6 per il tenure (ex ricercatore di tipo B). Potenzialmente si potrebbe essere stabilizzati oltre i 40 anni, quando un ricercatore trentenne in Europa è già considerato anziano”, denuncia Miraglia.
Un accorgimento non di poco conto per quanto riguarda gli assegnisti cerca di inserirlo il relatore del ddl al Senato, il vicepresidente della Commissione Istruzione, Francesco Verducci (Pd), con un emendamento che trasforma l’assegno di ricerca in contratto. “Se rimanesse l’assegno, un numero enorme di ricercatori precari rimarrebbero senza tutele, mentre un contratto di tipo subordinato garantirebbe maggiore sicurezza a livello lavorativo”. L’obiezione, però, è sia che il livello remunerativo di questa nuova figura vada a sostituire il ricercatore di tipo A (ben remunerato), sia il rischio che, costando il doppio dell’attuale assegnista, le università possano diminuire il reclutamento di nuovi ricercatori: “Ne siamo consapevoli ed è per questo che stiamo lavorando con il ministero per avere un’importante copertura finanziaria già in legge di Bilancio per evitare problematiche di questo tipo”. Rassicurazioni sembrerebbero arrivare anche su altri due punti fondamentali: “Fare in modo che il rapporto tra università ed enti di ricerca sia definito molto bene, così che questa integrazione non penalizzi nessuno – spiega il senatore – Cioè le persone che in virtù di questo disegno di legge vedranno cancellate le proprie posizioni abbiano la possibilità di rimanere negli enti di ricerca e nell’università”. L’altro riguarda le borse di ricerca: “Una figura senza tutele che deve essere circoscritta in modo che non ci sia il rischio di un abuso da parte delle università”.