Dieci anni: abbiamo ancora negli occhi le immagini di quel giorno, di un uomo che ormai non era che l’ombra di se stesso, finito miseramente dopo 42 anni di potere pressoché assoluto. Muhammar Gheddafi: il dittatore sanguinario, o il leader panafricanista capace di opporsi all’Occidente, sono due visioni opposte, quelle che ancora circolano sulla sua figura. In molti, in Libia e in tutto il continente africano, ancora oggi rimpiangono la sua “guida”, la sua voce che si scagliava contro il dominio delle superpotenze, la sua lungimiranza che aveva spinto verso la nascita dell’Unione Africana. Ieri, i suoi sostenitori hanno diffuso un comunicato stampa in cui denunciano “i crimini di guerra commessi dalla Nato” e il comitato incaricato di commemorare la morte del colonnello invita oggi a manifestazioni simboliche di cinque minuti in tutte le città della Libia.

Che dopo Gheddafi sia stato lo sfacelo, è evidente. A fatica la Libia prova a rialzarsi, sperando nel voto del 24 dicembre prossimo per avviare la normalizzazione. Che la caduta di Gheddafi sia stata spinta anche da altri interessi è ormai chiaro, anche grazie ai procedimenti giudiziari in corso in Francia a carico dell’allora capo di stato Nicolas Sarkozy. Che però il regime reggesse il paese con pugno di ferro, reprimendo ogni dissenso, è ugualmente fuori discussione.

Quello su cui vorrei soffermarmi, però, è un altro elemento centrale, una domanda che in tanti si pongono e che va ben oltre i confini libici: esiste una via africana alla democrazia? E se sì, qual è?

Dopo la fine dell’epoca coloniale, sono sorte fragili democrazie che spesso non hanno retto all’urto degli interessi stranieri: da un lato la corruzione, l’avidità e le lusinghe del potere, dall’altro popolazioni spesso volutamente mantenute nella fame e nell’ignoranza hanno spianato la strada a regimi feroci.

E oggi, spesso, anche laddove si vota regolarmente, il voto tanto regolare non è ma viene gestito in modo da perpetuare al potere chi vi era salito magari con slancio utopistico. Lo stesso Gheddafi era nato come leader rivoluzionario ed è morto malamente come un tiranno.

Sono molti gli intellettuali africani che si interrogano su quale sia la forma di gestione della cosa pubblica più adatta al continente, alla sua storia e alla sua cultura, che da secoli è spesso imperniata sulla presenza di un “capo” – che fosse il capovillaggio o il re di una tribù – nelle cui mani si concentrava non solo il potere, ma anche l’autorità morale e magari religiosa. L’idea moderna di “presidente” si innesta su questo sostrato culturale e spesso viene abilmente sfruttata da chi si siede sullo scranno più alto e non lo vuole più lasciare: e allora si cambiano le costituzioni, si organizzano brogli e si reprime il dissenso, mostrandosi intanto come “uomo forte”, “salvatore della patria”.

Laddove le società civili sono abbastanza forti si riesce a ottenere un ridimensionamento di queste derive ma spesso a prezzo di tanto sangue. Esiste una via africana alla democrazia? Ad oggi, per quanto imperfetta, resta la forma migliore di governo che l’uomo abbia sperimentato: così rispondo di solito agli amici africani con cui capita di discutere della validità del nostro modello democratico. Nel continente, secoli di sfruttamento, schiavismo, spoliazione sistematica dei beni e uccisione degli intellettuali (fra cui i leader postcoloniali) ha prodotto un deserto da cui ancora si fatica a uscire.

Esempi in controtendenza ce ne sono, per fortuna, ma sono ancora troppo pochi e tali da far sembrare grandi statisti anche quelli che, semplicemente, non fanno i tiranni. I leader lungimiranti e ispirati del postcolonialismo sono un lontano ricordo. Di Thomas Sankara e Nelson Mandela in erba non c’è l’ombra. Ma, del resto, questa amara constatazione riguarda un po’ tutto il pianeta. Se va bene, si può sperare in capi di stato onesti. Ma guide vere, menti sagaci, persone che osino pensare al bene collettivo, andando oltre la prossima campagna elettorale, non se ne vedono da un pezzo. E non solo in Africa.

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