Tre fischi. Uno più lungo dell’altro. Si propagano forti e netti come una sentenza, spingendo tutto lo stadio Olimpico al silenzio. È il 25 aprile 2010 e l’arbitro Damato non ha decretato solo la fine di Roma-Sampdoria. Ha decretato la fine di un sogno. In realtà mancherebbero ancora tre partite alla fine del campionato, eppure è palpabile la sensazione che quella sconfitta per due a uno (doppietta di Pazzini a ribaltare il vantaggio di Francesco Totti) sarà decisiva. Tutti lo sanno. Anche quel romano che, a testa bassa, ha appena stretto la mano al tecnico blucerchiato Gigi Del Neri. È Claudio Ranieri, il regista di quella stagione meravigliosa. L’allenatore chiamato a sostituire il dimissionario Luciano Spalletti dopo appena due partite. A lui, romano di Testaccio e romanista, la presidente Rosella Sensi aveva chiesto solo di aggiustare una squadra allo sbando e senza identità. Non certo di recuperare quattordici punti all’Inter di José Mourinho e di giocarsi lo scudetto.
Per Ranieri la chiamata dei giallorossi era stata l’occasione attesa e desiderata da tutta una carriera. Non una parentesi fugace e improvvisata. Il punto più alto di una parabola cominciata ventiquattro anni prima, nel 1986, da Lamezia Terme, in Interregionale. Tre anni e due promozioni a Cagliari (dalla Serie C alla A) gli aprono le porte della prima grande occasione: il Napoli. Gli azzurri sono orfani di Maradona da pochi mesi e Ranieri si trova a dover gestire un ambiente incandescente, stretto tra una nostalgia opprimente e la voglia di continuare a primeggiare. Ranieri porta sotto al Vesuvio la sua filosofia. Il calcio spettacolare dell’epoca maradoniana lascia il posto a un stile pragmatico, dove la solidità difensiva si abbina all’arte del contropiede.
L’idillio però dura poco. Giusto il tempo di un quarto posto. È Firenze la meta successiva. In tre anni riporta i viola in A, vince una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana contro il Milan, raggiunge una semifinale di Coppa delle Coppe e, soprattutto, fa esplodere Gabriel Omar Batistuta.
A Ranieri ormai non si interessano più soltanto in Italia, ma anche all’estero. A Valencia vince una Coppa del Re e prepara il terreno per l’epopea di Hector Cuper, mentre all’Atletico Madrid non lascia il segno. Quel segno che invece imprime a Londra, sponda Chelsea, per quattro anni. Lo spazio vuoto nella casella “titoli” viene comunque riempito dall’affetto dei tifosi dei Blues, conquistati da quella caparbietà e da quei modi educati e genuini. A Londra tutti adorano The Tinkerman, l’indeciso. Tutti tranne il nuovo padrone del Chelsea, Roman Abramovic. Il magnate russo rileva i londinesi nel 2003 e vuole costruire una squadra da sogno. Dà a Ranieri un anno per convincerlo e il Chelsea arriva secondo in campionato e in semifinale di Champions League. È la sua migliore stagione in carriera ma non basta. Per le ambizioni di Abramovic è troppo poco.
È Parma la città che lo riporta in Italia. Siamo nel gennaio 2007 e i ducali sono ultimi in classifica. Le speranze sono poche ma insieme a Ranieri arriva un 20enne italo-americano di cui si parla un gran bene, Giuseppe Rossi. Partita dopo partita, i due trascinano gli emiliani verso una salvezza incredibile e inattesa. Un exploit che non resta inosservato. Rossi diventa il perno offensivo del Villareal, Ranieri riceve una telefonata da Torino. Alla Juventus, dopo lo scandalo Calciopoli, serve una personalità di esperienza e dal profilo basso per il ritorno in massima serie. Arrivano un terzo posto, una vittoria storica al Santiago Bernabeu prima dell’esonero. Due anni che paiono essere il crepuscolo per Ranieri. Prima della chiamata da Roma.
Ora però la sconfitta contro la Sampdoria ha vanificato tutto: i quattro punti conquistati contro l’Inter, la vittoria a Torino contro la Juventus, i due successi nel derby. Alla fine la classifica recita: Inter 82, Roma 80. Due punti di ritardo e il titolo di campioni d’Italia per soli 37 minuti. Un’amarezza a cui si aggiunge anche la sconfitta in finale di Coppa Italia, sempre contro i nerazzurri. Un finale straziante in una stagione memorabile. Un epilogo diametralmente opposto rispetto a quello che maturerà sei anni dopo.
È il 2016. Il tecnico romano viene chiamato al Leicester e costruisce il suo capolavoro partendo da un pronostico scudetto dato a 5000:1 e dai bookmakers che lo vedono come il primo esonero della stagione. Le Foxes invece praticano un calcio meravigliosamente italiano e mettono in fila Chelsea, Manchester United, Manchester City e Tottenham. Tra un “we are in Champions League” e un “dilly ding dilly dong” il miracolo si materializza quando Hazard costringe al pari gli Spurs a tre giornate dalla fine. Questa volta non c’è una Sampdoria a impedirgli di esultare. Il Leicester è campione d’Inghilterra. Claudio Ranieri è campione d’Inghilterra. La storia lo ha ripagato delle tante delusioni con il titolo più desiderato in una delle avventure più improbabili della carriera.
Una carriera che oggi, a 70 anni, lo vede ancora in panchina, al Watford. Con la stessa semplicità, passione e voglia di stupire. Proprio le doti che stanno alla base di quella Roma e di quel Leicester. I due picchi sportivi di Claudio Ranieri. Due storie che, nel bene o nel male, rimarranno nella memoria.