di Ilaria Muggianu Scano

In principio fu Hunger Games e successivamente La casa de papel, ma vien da sé che qualsiasi serie tv di impianto corale e di ispirazione ludica – alla quale può esser verosimilmente assimilata anche ogni serie dinastica – affidata alle sapienti mani distributive dell’americana Netflix diviene, per automatismo, generatrice di fenomeni di costume e indiscutibili eventi mediatici. Meme, post, lunghe dissertazioni più o meno colte, accademiche e da pub: poco importa che la serie Squid Game sia effettivamente stata vista. E non siamo ancora arrivati ad Halloween e carnevale per dare libero sfogo ad ispirazioni per travestimenti.

Rimane da capire la ragione della viralizzazione immediata di un prodotto che si appresta a diventare un cult, non fosse altro per numeri: è la serie più visualizzata della storia. Neppure il regime ultra censorio della Corea del Nord è riuscito a resistere ad un’incursione recensiva su Squid Game, alla lettera “Gioco del calamaro”. Il canale ufficiale del regime, Arirang Meari, giusto l’altro ieri rifletteva sull’enorme successo della polaroid sudcoreana, o meglio sull’autoscatto, della disumanità del capitalismo imperialista.

Squid Game sarebbe insomma ben più di una trasmissione d’intrattenimento, quanto uno strumento meta-antropologico in cui non sfugge alcuna delle storture sociali, dall’inflessibilità delle classi sociali alle diseguaglianze diffuse, strutturate e sedimentate con metodo e diffusione capillare. Ogni serie di grande successo annovera tra gli ingredienti imprescindibili la ghiotta semina, qui e lì, di messaggi subliminali, terreno fertile per falangi di semiologi che tra il goliardico e l’intellettuale forniscono ottimo assist di mistero e sequela, come Il codice da Vinci docet.

Uno dei primi rompicapo, spontanei o indotti da sapienti manovre pubblicitarie ben attecchite sulla serie imperatrice di Netflix, è lo scioglilingua dell’inquietante bambola gigante: “무궁화 꽃이 피었습니다”, che si legge: “mugunghwa kkochi piotsseumnida” e significa alla lettera: “Il fiore di ibisco è sbocciato”, come riporta Il Fatto Quotidiano.

L’allusione è al principiare di un gioco o quello che si vorrebbe far passare per tale. Messaggi esoterici, veri o presunti, che certo non ha inventato la Gen Z. Ciò che invece è assolutamente caro a millennials e zeders è la sfrenata gamificazione, l’applicazione di una logica premiale a ogni declinazione della realtà, dai rapporti di coppia al lavoro, dalla musica al fitness. I risvolti semiotici sono tali da far ingolosire anche chi non sospettava che una serie sudcoreana siglata Hwang Dong-hyuk potesse divenire il contenuto più fruito della piattaforma statunitense.

Una fine opera di retro-nostalgia in cui al gusto del game è applicato il desiderio inconscio del ritorno ai giochi dell’infanzia. Possibile istruire un’intera ermeneutica sulla fenomenologia dell’età dell’innocenza, di un onirico passato lontano, in un continuo braccio di ferro tra giochi del passato e videogames coevi? Forse è antropologicamente riduttivo come depauperante classificare la serie pulp come naturale estensione di Parasite, asso pigliatutto nella 72esima edizione di Cannes.

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