I decreti del presidente del Consiglio con cui il governo Conte II ha dettato le misure anti-Covid "non hanno conferito al Presidente del Consiglio dei ministri una funzione legislativa, né tantomeno poteri straordinari da stato di guerra", ma soltanto "il compito di dare esecuzione alla norma primaria" contenuta in un precedente decreto-legge, scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza del 23 settembre scorso
I Dpcm, i decreti del presidente del Consiglio con cui il governo Conte II ha dettato le misure anti-Covid, “non hanno conferito al Presidente del Consiglio dei ministri una funzione legislativa in violazione degli art. 76 e 77 Cost., né tantomeno poteri straordinari da stato di guerra in violazione dell’art. 78 Cost.”, ma soltanto “il compito di dare esecuzione alla norma primaria” contenuta in un precedente decreto-legge. Lo scrivono i giudici della Corte costituzionale in conclusione alle motivazioni della sentenza che il 23 settembre scorso ha dichiarato infondata la prima questione di costituzionalità in merito sollevata dal giudice di pace di Frosinone. Non c’è stata dunque da parte dell’ex premier alcuna usurpazione dei poteri del Parlamento, come sostenuto più volte dagli avversari politici e dall’ex giudice della Consulta Sabino Cassese: il Dpcm del 10 aprile 2020, al centro del ricorso, “si è limitato ad adattare all’andamento della pandemia quanto stabilito in via generale dalla fonte primaria”, cioè il decreto-legge 19 del 25 marzo 2020 convertito in legge dal Parlamento il successivo 22 maggio.
La questione riguardava una multa di quattrocento euro inflitta dai Carabinieri di Trevi nel Lazio a un cittadino che “si spostava a piedi in assenza di comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza o di motivi di salute”, in violazione delle regole introdotte dal Dpcm in base al decreto-legge del 25 marzo. Secondo il giudice di pace ciociaro, l’avvocato Emilio Manganiello, questo combinato di norme avrebbe “sostanzialmente delegato la funzione legislativa in materia di contenimento della pandemia (…) all’autorità di governo per il suo esercizio tramite meri atti amministrativi” – i Dpcm, appunto – “in contrasto “con il principio indiscusso di tipicità delle fonti-atto di produzione normativa”, e al di fuori dell’unica ipotesi di emergenza costituzionalmente rilevante, quella dello stato di guerra”. In questo modo, sosteneva, era “aggirato il principio cardine di cui agli articoli 76 e 77 Cost., per cui la funzione legislativa è affidata al Parlamento, che può delegarla solo con una legge-delega e comunque giammai ad atti amministrativi”.
Una ricostruzione che la sentenza firmata dal giudice estensore Stefano Petitti boccia in pieno. Il decreto-legge 19 del 2020, ricorda la decisione, aveva previsto in un elenco tassativo e inderogabile (al comma 2 dell’articolo 1) quali misure avrebbero potuto essere adottate con Dpcm. “La fonte primaria, pertanto – scrivono i giudici della Consulta – ha tipizzato le misure adottabili dal Presidente del Consiglio dei ministri, in tal modo precludendo all’autorità di Governo l’assunzione di provvedimenti extra ordinem“. Insomma, solo agli strumenti previsti tassativamente dal decreto legge – e soltanto a quelli – il premier poteva far ricorso per intervenire, il che esclude un trasferimento nelle sue mani della funzione legislativa. Inoltre, quell’elenco era accompagnato da un criterio che orientava “l’esercizio della discrezionalità attraverso i principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale”. Una previsione “che è di per sé del tutto incompatibile con l’attribuzione di potestà legislativa ed è molto più coerente con la previsione di una potestà amministrativa, ancorché ad efficacia generale. In sostanza – conclude la Corte – il d.l. n. 19 del 2020, lungi dal dare luogo a un conferimento di potestà legislativa al Presidente del Consiglio dei ministri in violazione degli artt. 76 e 77 Cost., si limita ad autorizzarlo a dare esecuzione alle misure tipiche previste”.