C’era grande attesa per il ritorno di Jonathan Franzen, uno degli autori americani contemporanei più influenti, a sei anni dal suo ultimo romanzo Purity. Il suo nuovo romanzo, Crossroads (Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi), non delude le aspettative dei suoi affezionati lettori.
Se la generazione precedente ha avuto Philip Roth e Don DeLillo come figure più rappresentative della scena letteraria di New York, a loro sono seguiti Franzen, il compianto David Foster Wallace e Jonathan Safran Foer, che però è di una quindicina di anni più giovane. Se Wallace era la voce della ricerca letteraria con radici nel postmodernismo, il suo amico Franzen ha sempre avuto una maniera più tradizionale di scrivere. Ogni suo libro racconta la storia di una famiglia americana, con le sue contraddizioni, immersa nella società americana, anch’essa con le sue contraddizioni. Crossroads non fa eccezione.
“Lo sa perché il gruppo si chiama Crossroads? Perché Rick Ambrose pensava che il titolo di una canzone rock potesse coinvolgere i ragazzi”.
Era una scabrosa mezza verità. Era stato lui stesso a proporre quel nome, all’inizio.
“E allora gli ho chiesto, ho dovuto chiederglielo, se conosceva la versione originale di Robert Johnson. E Rick mi guarda allibito. Perché per lui, sa, la storia della musica comincia dai Beatles. Mi creda, ho sentito la versione di Crossroads dei Cream. So benissimo cos’è. Un gruppo di inglesi che fregano una canzone a un autentico maestro nero del blues e fanno finta che sia loro musica”.
Questa scena già ci fa capire molte cose del tema centrale del romanzo che si svolge all’inizio degli anni ’70. Il protagonista è Russ, il pastore della chiesa di New Prospect, un uomo alla antica, che aveva creato un gruppo di preghiera per i ragazzi. Loro però hanno preferito sostituirlo con Rick, pastore più giovane e alla moda, che capisce la musica rock. The times they are changin’, insomma, ma Russ non riesce proprio a comprendere questo nuovo mondo che gli è spuntato sotto ai piedi. Accanto a lui alcuni personaggi memorabili: la moglie che non lo ama più e un figlio che vuole partire volontario per combattere in Vietnam ignorando gli appelli al pacifismo del padre.
Insomma a Russ sta crollando il mondo addosso, per questo si rifugia tra le braccia di una vedova, diventando anch’egli un “peccatore” e dando il via a una serie di conseguenze, che proseguirà per altri due libri. Crossroads è infatti il primo volume di una trilogia intitolata “La chiave di tutte le mitologie”. Franzen è uno scrittore ambizioso che pretende di mettere ordine nel complesso mondo presente, facendocelo leggere alla luce dell’ultimo grande capovolgimento culturale, quello seguito al ’68. Come sempre inserisce anche ragionamenti legati all’ambiente in alcune scene ambientate nell’Arizona tra i navajos.
Nelle 629 pagine di Crossroads c’è molta umanità, e a volte la scrittura risulta troppo fitta per entrarci davvero dentro. Franzen ha una grande maestria nel vivisezionare i rapporti umani, ma risulta a tratti troppo freddo per i miei gusti. Tra il grande maestro della sperimentazione Wallace e il grande romanzo americano di Franzen, continuo a preferire Safran Foer, che riesce a mescolare tradizione, sperimentazione e ironia, ma forse i miei gusti sono anagrafici visto che Foer è più vicino alla mia generazione.
Se dovessi fare una classifica dei libri di Franzen che mi sono piaciuti di più non saprei dirlo con certezza. Le correzioni fu una grandissima rivelazione, e forse è quello che mi è rimasto più impresso, ma anche Libertà e questo ultimo Crossroads non sono certo da meno.
Insomma Franzen si può amare o odiare, stimare o detestare; solo una cosa non si può fare ed è ignorarlo, perché molti scrittori, anche italiani, devono a lui molto nel loro modo di narrare.
Un’ultima cosa: da Le correzioni, che era del 2001, a Crossroads Franzen non ha minimamente cambiato il suo modo di scrivere, e nemmeno il tipo di storie che racconta. Il mondo attorno a lui però è molto diverso, quindi è legittimo chiedersi: si può raccontare sempre la stessa storia o bisogna annusare un po’ la società che cambia? Non lo so, ma ho come il dubbio che nel personaggio di Russ che non riesce a fare i conti con “la nuova musica rock” si nasconda proprio Franzen. E chi siamo noi per non fagli suonare un ennesimo bel blues?