Economia & Lobby

Pensioni, l’Ocse punta il dito contro la spesa italiana: ci risiamo!

di Pietro Francesco Maria De Sarlo

Ci risiamo! Nell’audizione alla Commissione bilancio del Senato del 20 u.s., gli economisti dell’Ocse hanno dichiarato: “L’Italia spende per pensioni molto di più rispetto agli altri paesi Ocse e questo penalizza i giovani e le prospettive di crescita future”.

Ma le cose stanno realmente così? Dai dati Eurostat risulta che la spesa pensionistica nel 2019 rappresenta il 16% del Pil in Italia, il 12% in Germania, il 14,8% in Francia e il 12,7% in Spagna. Quindi apparentemente l’Ocse ha ragione. Ma sono dati comparabili? In Germania su un reddito da pensione di 1.500 euro al mese si pagano circa 60 euro di imposte, in Italia 600. Quindi la prima osservazione riguarda l’omogeneità dei trattamenti fiscali. In Italia quasi un quarto del reddito da pensione viene restituito al fisco, quindi l’incidenza effettiva delle pensioni sul Pil è del 12%, riducendo o annullando il gap con il dato omogeneo con gli altri Paesi europei.

Considerare la spesa pensionistica al lordo delle tasse è come se andando dal panettiere si comprasse un chilo di pane tirando fuori dalla tasca destra 5 euro e si mettesse il resto di due euro nella tasca sinistra, e poi si desse del ladro al panettiere per aver fatto pagare il pane ben 5 euro al chilo!

Nel prospetto della gestione finanziaria 2020 del bilancio Inps si legge che sono state pagate pensioni per 214,725 miliardi di euro a fronte di 200,023 miliardi di contributi a carico di lavoratori e datori di lavoro, con uno squilibrio di 14,702 miliardi. Ma se rettificassimo i 214,725 miliardi di pensioni erogate dei 53 miliardi e oltre di tasse, la gestione previdenziale sarebbe attiva per quasi 30 miliardi!

Insomma le cose cambiano significativamente e cambia, specularmente, anche il risparmio che si ha tagliando le pensioni. Per ogni mille euro di tagli il risparmio effettivo è di 750 euro, ed è ancora meno se si tagliano le pensioni più elevate, che hanno una aliquota fiscale maggiore. Ma non finisce qui.

Il taglio delle pensioni richiesto da Draghi-Trichet il 5 agosto 2011 e attuato brutalmente dal governo Monti, che tagliò anche i diritti acquisiti, determinò una incertezza sul futuro tale che aumentò i risparmi e contrasse il Pil. Inoltre l’allungamento dell’età pensionabile, che non incide sulla quantità di ore lavorate per unità di prodotto, rese ancor più difficile trovare un lavoro per i giovani. Rispetto al 2011 il Pil in Italia è cresciuto di meno del 9%, in Germania quasi del 30%, in Francia del 19% e in Spagna del 16%, in Grecia poi si è ridotto del 10%, con punte nel periodo del 25%.

Questi i risultati delle politiche di rigore, meglio dire di tagli brutali, imposte da Draghi, all’epoca governatore Bce, e dall’Eurogruppo.

La spesa pensionistica risente delle dinamiche del passato e quindi, a meno di fare macelleria sociale su persone non più in grado di produrre redditi alternativi, è decorrelata all’andamento del Pil che è invece fondamentale per il suo finanziamento. Se avessimo avuto politiche economiche diverse e fossimo cresciuti come la Germania? Beh, l’incidenza della spesa pensionistica lorda sarebbe del 12,4%, netta del 9,2%! Cambierebbe anche il bilancio Inps che avrebbe un attivo sui contributi versati di 45 miliardi, con pensioni lorde, e di ben 80 miliardi con quelle nette.

Sarebbe stata possibile una politica economica diversa? Di certo quella seguita è stata fallimentare per fatti concludenti. La mia è una rappresentazione semplicistica? Forse, ma altrettanto semplicistica di quella di chi pensa di risolvere tutto con il taglio di pensioni e diritti. Lo ha detto anche Mario Draghi, che di recente ha dichiarato che il debito si risolve con la crescita. Ma attenzione, non è il Draghi che scrisse la lettera dell’agosto 2011, ma il Draghi presidente del Consiglio che negli ultimi vent’anni ha fatto il commesso alla Standa.

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