I farmaci salvavita sono arrivati in diversi lotti tra marzo e maggio 2021, e scadono dopo un anno. Da allora le regioni li somministrano col contagocce, a prescindere dai livelli di contagio e nonostante possano curare le persone più a rischio. Così nei frigo delle farmacie ospedaliere restano confezioni in scadenza già dal prossimo 31 dicembre che, ai ritmi di 500 trattamenti a settimana non si riusciranno a smaltire per tempo. Qualcuno ha colto al volo l'occasione di liberarsi di quelle in giacenza
I farmaci salva-vita? Rischiano di scadere nei frigo. Le farmacie regionali di tutta Italia sono piene di confezioni di anticorpi monoclonali mai utilizzate che si avvicinano pericolosamente alla data di scadenza. E non tra due anni, ma già tra due mesi. Il rischio riguarda oltre 60mila fiale, corrispondenti ad almeno 30mila trattamenti: ai ritmi prescrittivi attuali non si riuscirà a somministrarle per tempo, realizzando così il più odioso tra gli sprechi, in sfregio a 130mila morti e 73mila infetti nella morsa del virus. Perché? Perché quando ce li hanno offerti gratis li abbiamo pagati, e una volta arrivati li abbiamo dispensati col contagocce: in sette mesi sono stati curati poco più di 12mila pazienti ad alto rischio, a fronte di 50mila nuovi contagi. È una questione scottante, di cui sono informati il generale Figliuolo, le Regioni, Aifa che ogni 15 giorni fanno una riunione per dirottare sulle regioni virtuose le giacenze delle altre che non riescono invece a garantire le cure ai propri cittadini. Guai però a parlarne, un’impresa trovare numeri ufficiali.
La Corte dei Conti ha da poco aperto un’indagine sull’inizio della storia rivelato da uno scoop del Fatto, quando alla vigilia della seconda ondata 2020 Aifa e ministero della Salute fecero spallucce di fronte alla possibilità di curare subito (e gratis) 10mila pazienti con l’anticorpo Bamlamivimab dellla Eli Lilly, grazie all’impegno del virologo di Atlanta Guido Silvestri. Salvo comprarle poi a prezzo pieno a marzo, vale a dire sei mesi e tanti morti dopo chesi sarebbero potuti evitare. I magistrati contabili, sulla scorta anche di diverse interrogazioni parlamentari, vogliono accertare se quel rifiuto fu “una scelta pubblica adeguatamente ponderata”. Meno ponderabile è la circostanza di oggi per cui oggi, a un anno di distanza, migliaia di fiale rischiano di finire tra i rifiuti. Quante, esattamente, non si sa. Ancora una volta mancano informazioni essenziali sugli approvvigionamenti fatti (e relativi contratti) così come sulle giacenze e scadenze.
Il rischio, va detto, si poteva prevedere. I monoclonali sono farmaci biologici, e a differenza di quelli di sintesi scadono a 12 mesi dal confezionamento. A marzo 2021 sono arrivate 4mila dosi di Bamlamivimab di Eli Lilly e ne sono state utilizzate 823, anche perché a maggio è stato sospeso in monoterapia a favore dell’associazione con Etesevimab perché si è rivelato inefficacie rispetto alle varianti del virus (che un anno fa, quando fu proposto gratis, non circolavano e ora sono prevalenti). I primi lotti scadono già il 31 dicembre, gli altri tra gennaio e febbraio. Il composto Bamlanivimab/Etesevimab è stato utilizzato per 4.329 trattamenti, la giacenza è stimata in 19mila fiale con scadenza maggio-giugno 2022. Nei frigo ci sono poi 44mila confezioni di Casirivimab e Imdevimab (Roche) che, combinate, garantirebbero 22mila trattamenti circa, a fronte dei 6mila fatti finora. La scadenza sarebbe a partire da maggio ma da Aifa fanno sapere che in caso di farmaco già confezionato è procrastinabile di sei mesi. In ogni caso smaltirle tutte, con 400-500 prescrizioni a settimana, sembra impossibile.
Lo scarso utilizzo delle terapie anticovid è sotto gli occhi della comunità scientifica ormai da mesi. Fin da marzo infatti Aifa pubblica report sull’andamento delle prescrizioni in ogni regione. Le tabelle mostrano da subito una progressione deludente nelle dispensazioni, con marcate differenze tra una regione e l’altra. Il dato sulla “prevalenza” rivela come le dispensazioni non seguano neppure l’incidenza del virus (data dall’andamento dei contagi) quanto la capacità dell’organizzazioni sanitarie territoriali di mettere in fila il necessario a somministrare le cure. Nonostante si sostanzino di fatto in un’unica flebo e un paio d’ore di permanenza in ospedale. In questi sette mesi si sono cercate varie spiegazioni a numeri tanto modesti: la difficoltà di garantire le infusioni entro 72 ore dal tampone, la carenza di strutture autorizzate (che oggi sono però 202), i medici di base che non collaborano e non inviano i pazienti ai centri di trattamento, criteri di eleggibilità dei pazienti che inizialmente sono troppo restrittivi e che Aifa ha via via allargati per aumentare l’accesso alle cure. Il risultato però è lo stesso: le fiale restano nei frigo, o finiscono all’estero. Esempi?
Con 34mila morti la Lombardia è la regione che ha pagato il più alto tributo di vite al virus, ma da marzo ha usato solo 741 dosi per evitarlo. Ragion per cui il 12 ottobre scorso ha colto al volo l’occasione di “smaltire” le fiale in giacenza caricando 5200 dosi su un areocargo diretto a Bucarest. La Romania, straziata dai contagi, aveva chiesto all’Europa ossigeno, ventilatori e farmaci. A fornire monoclonali è stata però solo l’Italia che non sa utilizzarli, tanto che appunto li lascia nei frigo. Erano almeno le prime a scadere? La risposta si rimpalla da giorni ai piani alti del Pirellone, compreso l’ufficio dell’assessore alla Salute Letizia Moratti. Alla responsabile della farmacia regionale Ida Fortino non è mai arrivata l’autorizzazione a fornire alla stampa i dati su giacenze e scadenze richiesti. Non lo sa neppure Vincenzo Tamarindo, portavoce dell’ambasciata a Bucarest: “Non abbiamo i dettagli tecnici dei lotti consegnati”. Valore della donazione? Non meno di 6,5 milioni di euro.
“Non siamo ancora in zona rossa”, dice Barbara Rebesco, responsabile della logistica farmaceutica ligure. “Abbiamo un centinaio di dosi in scadenza a gennaio, altre a febbraio. Sono un’ottimista e voglio pensare che non una andrà sprecata. Per evitarlo facciamo riunioni con Aifa e struttura commissariale ogni due settimane”. Con una media di 25 dosi a settimana in tutta la Liguria, però, il rischio c’è. I centri autorizzati del Piemonte conservano 3mila dosi: nell’ultima settima ne hanno somministrate nove. Il solo Amedeo di Savoia di Torino ha 1500 dosi mai usate. “Nel massimo picco – ha spiegato Giovanni Di Perri, responsabile Malattie infettive – con 60 mila ospedalizzazioni, abbiamo usato 350 dosi. Avremmo potuto evitare 15 mila ospedalizzazioni e chissà quanti morti”.