Quando mi sono imbattuta nella storia di Julian Assange non ci potevo né volevo credere. In uno stato democratico, un giornalista è in carcere duro e rischia l’ergastolo perché ha fatto semplicemente il suo mestiere. Se chi fa trapelare crimini di guerra invece di essere ringraziato e premiato viene arrestato, allora nessun giornalista e attivista per i diritti umani, per l’ambiente, per la pace, si sentirà al sicuro. E non parliamo di dittature del sud del mondo, ma di grandi “democrazie” occidentali.

Forse pochi sanno che il 27 e 28 ottobre si deciderà l’estradizione di Assange negli Stati Uniti, dove rischia 175 anni di carcere per rivelazione di segreti militari. E magari non tutti sanno chi è Assange, visto che i media sono troppo spesso occupati a parlare di altro – magari a criminalizzare i no green pass.

Julian Paul Assange, australiano classe 1971, caporedattore dell’organizzazione divulgativa WikiLeaks, nel 2010, in piena guerra Usa/Nato in Iraq, aveva rivelato documenti statunitensi “classificati” (segreti), ricevuti dalla ex militare Chelsea Manning (a sua volta incarcerata, poi graziata dal Presidente Barack Obama). Di cosa parlavano quei documenti? Di crimini di guerra commessi dall’esercito Usa, tra cui un video che mostrava il massacro di civili iracheni da parte di un elicottero statunitense. Una prova indiscutibilmente autentica, perché il video era filmato dall’elicottero stesso. Il soldato Manning avrebbe dovuto archiviarlo e dimenticarlo, invece lo inviò a WikiLeaks.

Quei crimini fecero il giro del mondo e, spinto dall’opinione pubblica disgustata, l’allora Presidente George Bush decise, alla fine, di ritirare le truppe dall’Iraq. Le parole di Assange divennero allora celebri: “Se le bugie possono servire per iniziare le guerre, rivelare la verità può servire per fermare le guerre”.

Nonostante vari premi (Premio Sam Adams, la Gold medal for Peace with Justice da Sydney Peace Foundation, e il Martha Gellhorn Prize for Journalism), dall’11 aprile 2019 venne incarcerato nel carcere più duro del Regno Unito, la prigione di Belmarsh, con accuse fittizie.

Da allora sono passati anni di solitudine, di accuse di ogni genere e una persecuzione senza motivo. La società civile internazionale si è mobilitata, sono arrivati appelli per il rilascio del giornalista, fino all’attivarsi del relatore Onu sulla tortura, Nils Melzer, che oltre a rinnovare l’appello per l’immediata liberazione di Assange, chiese che venisse almeno trasferito dal carcere a un contesto di arresti domiciliari.

Nel 2020, gli Usa guidati da Donald Trump ne chiesero l’estradizione con l’accusa di “spionaggio” (in base all’Espionage Act del 1917) ma fu rifiutata dalla giustizia inglese per motivi di salute. Ma dopo Trump, anche Biden ci riprova. Come dice Noam Chomsky: “L’amministrazione Biden sta perseguendo ostinatamente l’estradizione di Julian Assange. Questo procedimento politico senza precedenti rappresenta una grave minaccia alla verità e alla libertà di informazione”. Ma perché questa persecuzione?

Quello che ha fatto Assange è stato soltanto pubblicare e diffondere notizie (vere) ricevute da fonti verificate, come fanno tutti i giornalisti ed editori. La persecuzione di Assange è quel che serve per frenare non solo i giornalisti investigativi di tutto il mondo e i loro editori, ma anche i semplici cittadini. Queste vicende devono farci riflettere sul messaggio chiaro e intimidatorio che è stato lanciato al giornalismo libero e d’inchiesta, in tutto il mondo e farci riflettere su quante nefandezze di stati e multinazionali rimangono nascoste solo perché dipendenti e giornalisti hanno paura di parlare.

La petizione lanciata dagli Statunitensi per la Pace e la Giustizia, insieme agli Italiani per Assange e al Diem25 in Italia, si trova qui.

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