E Renzi invocò l’immunità. Quella che chiedeva agli altri di abbandonare così da incrociare le spade in Tribunale. Ma in tribunale rischiano ora di finire le intercettazioni dell’inchiesta sui finanziamenti della Fondazione Open per la quale l’ex premier rischia il processo. Per impedirlo, rivela oggi il Corriere Fiorentino, già a fine estate i suoi legali avevano presentato alla Procura di Firenze “formale intimazione di astenersi dallo svolgimento di qualsivoglia attività investigativa preclusa dall’art. 68 della Costituzione e dell’articolo 4 della legge 140/2003, nonché nell’utilizzare conversazioni e corrispondenza casualmente captate senza previa autorizzazione della Camera di appartenenza”. In due parole, l’immunità parlamentare.
La richiesta è ora nelle mani della giunta del Senato perché il procuratore aggiunto Luca Turco, che è il titolare dell’inchiesta, ha risposto picche, spiegando che le mail e i messaggi finiti agli atti provengono da altri indagati che non godono delle guarentigie. Non è chiaro quali intercettazioni Renzi intenda coprire, ma l’elenco degli indagati per finanziamento illecito cui nei giorni scorsi è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini è lungo: conta 11 persone tra le quali i più stretti collaboratori, da Luca Lotti alla Boschi, e diversi altri che parlamentari non sono, a partire da Marco Carrai e dall’ex presidente della fondazione Alberto Bianchi. Nei prossimi 20 giorni potranno tutti chiedere di essere interrogati e la Procura, a quel punto, deciderà se procedere o archiviare.
Evidentemente però nelle carte dell’indagine c’è qualcosa che disturba Renzi che di fatto ne ha chiesto la secretazione e il non utilizzo tramite l’istituto dell’immunità, lo stesso che tante volte nella sua carriera politica ha chiesto agli avversari di non utilizzare, accusandoli in caso contrario di essere di fatto dei codardi. Esempi? Quando nel 2016 deflagra l’inchiesta sul petrolio in Basilicata il Pd querela vari esponenti dei Cinque Stelle tra i quali Sibilia, Di Maio, Catalfo per le dichiarazioni rese dentro e fuori dall’aula. Renzi in Senato si appella ai parlamentari grillini denunciati: “Rinunciate all’immunità, io non ce l’ho”.
In effetti era premier e segretario del partito denunciante, aveva dunque l’agio di sfidare chi invece l’aveva per ogni dichiarazione sgradita, vera o falsa che fosse. Tenne banco per mesi la querelle con Luigi di Maio sugli “impresentabili” tra le fila dei candidati Pd. “Se Di Maio è un uomo rinunci all’immunità”. Quando poi Di Battista vi rinunciò davvero Renzi gli fece gran complimenti: “in Parlamento ha detto cose false, ma ho apprezzato la rinuncia”.
Il tempo, si sa, cambia le cose. Nel 2018 Renzi diventa senatore della Repubblica e in quella veste non rinuncia a lanciare il guanto di sfida, stavolta all’indirizzo di Matteo Salvini. Il 24 luglio 2019 lo attacca così sui fondi della Lega: “Querelami per i 49 milioni, non userò l’immunità parlamentare”. E anche questo è vero, perché la userà ma per ben altro.
Renzi si trova 0ra alle prese con guai giudiziari per i quali l’immunità parlamentare gli va benissimo, tanto che – puntualmente – decide di farla valere in Senato. Non per proteggere opinioni insindacabili espresse nell’esercizio delle funzioni. Ma se stesso e i suoi dal possibile sviluppo processuale dell’indagine sui 7 milioni raccolti da Open per finanziare la sua ascesa da sindaco di Firenze a premier in sei anni. Ma solo i fessi, si sa, non cambiano idea.