Il giorno dopo il ballottaggio per le elezioni comunali, ho fatto due passi nel centro di Torino. E mi sono trovato davanti alle solite immagini di povertà. Sui prati delle Porte Palatine coperte che avvolgono corpi con visi invisibili, e a fianco borse con poche cose e sparsi ovunque rifiuti, rifiuti, e molte birre: a Torino si moltiplicano i negozietti gestiti da cingalesi e pachistani che vendono birre ghiacciate a qualsiasi ora e in qualsiasi stagione ai poveri di passaggio. Povertà e birra fredda vanno a braccetto.

Mentre osservo mi chiedo se una parte di quei poveri che vedo siano quelli che sono stati sfrattati dal salotto buono di Via Cernaia dalla ex sindaca (“non si cancella la povertà cancellando i poveri”). A Roma il reddito di cittadinanza, a Torino gli sfratti. La politica in fondo è questa: la ricerca del consenso.

Chi comanda Torino (così il libro dell’amico Maurizio Pagliassotti) non può essere molto orgoglioso. L’affluenza alle urne si è attestata al 42,13% e il nuovo sindaco ha vinto con più o meno gli stessi voti con cui Fassino fu battuto seccamente dalla Appendino nel 2016. E dove si è votato meno, è scontato, è in quella zona nord, in quella Barriera di Milano dove la povertà è più radicata e manifesta, e anche dove si ha una minore aspettativa di vita.

A Torino, alla motivazione astensionista che tanto è inutile varcare la soglia di quel seggio vista l’accozzaglia che c’è al governo, si aggiunge la motivazione che nulla può cambiare. E il nuovo sindaco non può infatti essere neppure ottimista. Su cosa potrà far leva per risollevare le sorti di una delle metropoli più povere d’Italia? Dove alla mono-industria degli anni Settanta/Ottanta si sono sostituiti solo un po’ di turisti, nove ristoranti stellati e molte pizzerie?

Torino non è più la grigia città degli anni di piombo, ma quella città aveva un’anima. Questa Torino invece non si sa più cosa sia.

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