Da che parte si incomincia a creare una scarpa? Come si realizza un cappello? Cosa c’è dietro alle creazioni dei grandi stilisti? E dove nascono? Lo sapevate che per ricamare a mano ognuna delle tute indossate dai Maneskin alla finale di Sanremo ci sono volute circa 300 ore di lavoro? C’è tutto un mondo da scoprire tra palazzi storici, cortili nascosti, vecchie fabbriche reinventate, laboratori artigianali: le roccaforti della moda, tradizionalmente chiuse al pubblico, anche quest’anno per due giorni hanno aperto le loro porte rivelando ai visitatori i segreti e la sapienza antica che si celano nella moda italiana, un’eccellenza che tutto il mondo ammira e ci invidia ma anche una risorsa cruciale per il nostro Paese dal momento che con il suo fatturato rappresenta il 4,5% del Pil. Sabato 23 e domenica 24 ottobre torna ApritiModa, un’iniziativa che apre al pubblico per un weekend luoghi un tempo conosciuti e frequentati solo dagli addetti ai lavori per far scoprire al pubblico l’arte del Made in Italy. Un’iniziativa che gode del patrocinio del Ministero della Cultura e che è giunta quest’anno alla sua quinta edizione, con 86 realtà in tutta Italia che hanno deciso di aprire le proprie porte organizzando visite gratuite ma tutte con prenotazione obbligatoria.
“Aprire al pubblico le porte della moda italiana significa offrire un’occasione unica per toccare con mano la bellezza e l’unicità di questi luoghi”, ci spiega Cinzia Sasso, l’ideatrice di ApritiModa. Le brillano gli occhi mentre parla di questa iniziativa unica nel suo gemere: “Significa svelare lo straordinario patrimonio di capacità, qualità e conoscenza che hanno le nostre aziende, far conoscere la preziosità e l’unicità del lavoro artigianale che sta dietro a ciò che vediamo in passerella o sui giornali per trasmettere l’orgoglio di avere realtà come queste, educando le persone a riconoscere l’importanza e apprezzare il valore della qualità della filiera italiana. Il lusso non è un vezzo ma è artigianalità, sapienza, tradizione e dedizione”. Quando nel 2017 Cinzia decise di lanciarsi in questo progetto, non si aspettava certo che potesse riscuotere così grande interesse: “Nel 2017 abbiamo iniziato con 14 aziende solo su Milano, la “Serie A” della moda, da Armani a Versace passando per Prada. Mi aspettavo di vedere solo gli amici e invece vennero 15mila persone. Da lì ho capito che questa iniziativa aveva un potenziale enorme per avvicinare la moda alle persone, per far capire il valore immenso che c’è dietro al glamour delle griffe di grido. Così ho iniziato a coinvolgere sempre più realtà artigianali perché i grandi marchi sono certamente gli ambasciatori della moda italiana nel mondo ma la loro grandezza è tale perché dietro c’è tutta una rete di piccole botteghe che rende possibili le loro creazioni. Mestieri e capacità artigianali che sono lavoro ma quasi arte, un sapere tutto italiano di cui dobbiamo andare veramente fieri”.
Scegliere tra gli appuntamenti in programma è un’impresa ardua: noi di di FqMagazine abbiamo quindi deciso di fare un tour che fosse, nel suo piccolo, rappresentativo: la Pino Grassi Ricami, un laboratorio artigianale dove nascono i ricami più preziosi per gli abiti dei marchi più importanti dell’alta moda, non solo italiana; lo show room milanese di Brunello Cucinelli, racchiuso in uno dei cortili storici di Milano e concepito per far sentire il cliente veramente “a casa”; e Fratelli Rossetti, la fabbrica delle scarpe alle porte di Milano che per prima ha portato il Made in Italy a New York.
Pino Grassi Ricami – Il nostro tour inizia proprio da qui, da questo scrigno delle meraviglie nascosto dietro la facciata anonima di uno dei tanti palazzi milanesi del quartiere Porta Romana. Basta salire pochi scalini per trovarsi nel regno di Raffaella Grasso, che gestisce l’atelier fondato dal padre nel 1958 portando avanti questo antico mestiere che richiede un’esperienza e un’abilità uniche nel loro genere. Da qui sono passati infatti gli abiti dei più grandi della moda e non, da Armani a Valentino, Bottega Veneta, Dolce e Gabbana, Etro, Gianni Versace, Prada, Balmain, Francesco Scognamiglio, Emilio Pucci, Cavalli, Elsa Schiaparelli e molti altri ancora. E proprio qui sono state realizzate le ormai iconiche tutine sfoggiate dai Maneskin durante la finale del Festival di Sanremo 2021: ci sono volute circa 300 ore di lavoro per ricamare a mano, una per una, le perline e i lustrini che componevano il disegno a piuma ideato da Etro. Ma non solo: come si vede dalle tante immagini appese alle pareti, in queste stanze sono stati creati e realizzati i ricami degli abiti da sogno sfoggiati dalle dive di Hollywood sui red carpet più esclusivi, dagli Oscar ai Golden Globes. “Certo sapere che quell’abito che è immortalato è nostro ci inorgoglisce, è una soddisfazione che ricompensa il nostro duro lavoro ma resta, per l’appunto, lavoro. Per noi è lavoro. Non facciamo in tempo a vedere un abito indossato che già siamo sotto a lavorare ad un altro progetto”, ci dice Raffaella Grassi accompagnandoci a visitare il suo laboratorio. “Io sono cresciuta qui con mio papà, lui ha vissuto tutta la sua vita per questo lavoro, era la sua grande passione e non si lasciava impressionare dal glamour – ci confida -. Era molto umile, si accontentava di quello che c’era da fare e non pensava al mondo lussuoso che avrebbe accolto il risultato del suo lavoro”. Un lavoro che è prima di tutto un’arte antica che ricorda un po’ quella dell’affresco, con il disegno che viene impresso sul tessuto dal cartamodello “bucherellato” grazie a delle polveri: tutto viene fatto rigorosamente a mano e per realizzare questi ricami ci possono volere poche centinaia di ore o addirittura mesi e mesi. Cristalli, perle, perline, paillettes sono cuciti a telaio uno ad uno, tutti alla stessa distanza, con una sapienza e una precisione che solo le mani più esperte possono avere. Prima del Covid Raffaella aveva istituito anche un corso di formazione per ricamatrici ma non basta la passione per fare questo mestiere: ci vogliono anche tanta dedizione e, soprattutto una precisione maniacale per perseguire quella perfezione assoluta che ha reso questo laboratorio uno dei più importanti centri della moda italiana. E non è un punto di riferimento solo per la realizzazione dei ricami più preziosi, ma anche per la ricerca di soluzioni innovative, per l’uso di materiali inaspettati e per l’invenzione di nuove possibilità: “La sfumatura rosa di questo corpino zebrato di Schiaparelli, ad esempio – prosegue Raffaella -, nasce in realtà da un errore. Per la fretta, il campione era stato realizzato con delle paillettes ancora ‘bagnate’ che avevano quindi sbavato il colore, creando questa sfumatura rosata. La stilista quando l’ha visto se ne è innamorata ha voluto che ricreassimo proprio quell’effetto”. Eppure, la Pino Grassi Ricami si trova a dover fare i conti con la concorrenza dell’India che propone ricami a basso costo ma a scapito di qualità e sicurezza dei lavoratori: “Io ho 20 dipendenti tra magazzino, disegno e ricamo, tutte altamente qualificate. La crisi indotta dalla pandemia ha ridotto notevolmente il carico di lavoro e ancora non abbiamo ripreso a pieno ritmo. Anzi. È difficile, stringiamo i denti ma andiamo avanti con l’eccellenza che ci contraddistingue”.
Brunello Cucinelli – Via Montebello 16 è la seconda tappa. Qui, all’interno di uno dei classici cortili “magici” di Milano c’è lo showroom di Brunello Cucinelli, un ambiente caldo e accogliente concepito per essere uno spazio familiare, con la cucina, la libreria e le poltrone come a casa. Sugli scaffali si trovano i libri di Confucio e di Gramsci, di culture e religioni diverse affinché non solo il visitatore possa sentirsi subito a proprio agio ma possa ricevere anche uno stimolo diciamo così “spirituale”. È il terzo anno che lo showroom aderisce ad ApritiModa ma l’obiettivo è di poter aprire, magari già il prossimo anno, le porte di Solomeo, il borgo del chachemire dove si trova cuore pulsante dell’azienda fondata nel 1978 dal visionario imprenditore umbro. Qui il pubblico viene guidato alla scoperta della nuova collezione Autunno/Inverno, alla scoperta delle tecniche di lavorazione dei filati tra storia dell’azienda e innovazione. Certo, è un peccato non poter assistere alle fasi di produzione di questi capi e non poter vivere l’esperienza immersiva che potrebbe essere una visita a Solomeo, ma al pubblico arriva comunque forte e chiaro il messaggio: la manifattura è un’arte che in Italia si è tramandata lungo i secoli e sta a noi preservarla e consegnarla alle nuove generazioni come tale. È una tradizione da mantenere in vita e salvaguardare investendo nella formazione specialistica dei giovani, proprio come fa Cucinelli, che ha istituito nei 2015 dei corsi che vanno dalla sartoria maschile e femminile al rammendo e rammaglio, con un’attenzione non solo al prodotto ma anche al sociale.
Fratelli Rossetti – Lo sapevate che i mocassini con i “fiocchetti” sono nati proprio qui, in questa azienda del distretto calzaturiero di Parabiago? Visitarla con una guida d’eccezione come il presidente Diego Rossetti è un’emozione semplicemente indescrivibile. Qui il tempo sembra essersi fermato al 1953, quando il padre di Diego, Renzo, fondò la Fratelli Rossetti S.p.a.: non solo le tecniche e le fasi di produzione delle scarpe sono ancora le stesse di allora (cinque: taglio, giunteria, montaggio e finissaggio e messa in posa della suola) ma persino i macchinari. Sì, sembra incredibile ma è proprio così, “perché adesso è tutto automatizzato, le scarpe vengono stampate in serie e queste macchine non c’è più nessuno che le usa, quindi non vengono più prodotte”, ci spiega il Presidente. “Noi non solo le usiamo ancora, ma facciamo di tutto per mantenerle funzionanti e aggiornarle con gli standard di sicurezza odierni. D’altra parte anche molte delle nostre scarpe partono proprio dai disegni di 40-50 anni fa”. Da qui escono ogni anno più di 400mila paia di scarpe, dirette in tutto il mondo e apprezzate e richieste da molte celebrità, da Sylvester Stallone a Dustin Hoffman (“venne nel nostro negozio di New York da solo, fece il suo shopping e insistette per pagare”) a Elton John: “Per lui abbiamo realizzato appositamente dei mocassini rossi in pelle di coccodrillo, se ne era innamorato”. Ma come nasce una scarpa? Tutto ha inizio con la scelta della pelle da utilizzare, poi si va al taglio: Diego Rossetti conosce ogni passaggio con la sapienza dell’artigiano e ci spiega con minuzia ogni dettaglio tecnico delle varie fasi di lavorazione: “È un mestiere che dà grandissime soddisfazioni eppure non lo vuole fare più nessuno, perché oggi fare l’operaio e lavorare in fabbrica, è considerato un lavoro di serie B. I giovani vogliono fare tutti gli stilisti, ma quella è la punta dell’iceberg – spiega -. Sotto c’è tutto un mondo fatto di persone e di professioni molto specializzate che fanno sì che quello che lo stilista concepisce come idea diventi un prodotto di altissima qualità. Io ho 25o dipendenti, sono artigiani che custodiscono un know how che è il nostro vero tesoro. È da lì che bisogna partire oggi come allora, nel secondo Dopoguerra, quando mio padre decise di iniziare a fare le scarpe qui, nel suo paese. Ancora oggi la Fratelli Rossetti produce quasi il 90% dei suoi prodotti a Parabiago”. E, se fatta con attenzione e cognizione, l’industria calzaturiera può essere assolutamente sostenibile: “Non dimentichiamoci che la pelle che noi usiamo è uno scarto dell’industria alimentare. Quindi già partiamo, per così dire, con un riciclo. Poi, noi studiamo il taglio in modo da avere meno scarto possibile e, in ogni caso, questi avanzi vengono a loro volta riutilizzati per produrre succedanei del cuoio che usiamo per le suole. La cosa più inquinante è la tinteggiatura delle pelli: l’industria conciaria è potenzialmente devastante per l’ambiente ma in Italia oggi abbiamo delle normative rigide che impediscono che ciò accada e noi scegliamo solo fornitori italiani perché all’estero è tutt’altra storia”. Un aneddoto inedito? “Mi ricordo che ero ancora un bambino – racconta Diego Rossetti – e un cliente di un nostro importante negozio di Roma si presentò con l’orecchio di un elefante che lui stesso aveva cacciato durante una battuta in Africa: pretendeva che mio padre gli facesse degli stivali da caccia proprio con quella pelle d’elefante. Ebbene, non so come ma mio padre lo accontentò. Erano decisamente altri tempi”.