Cultura

I corsi e ricorsi storici delle pandemie: dalla rinascita dopo la peste nera alle convinzioni sulla “fine dei germi”. L’altra faccia delle “crisi”

Può avere storicamente senso riprendere e rimarcare anche un’altra idea, un’altra faccia della crisi come possibilità di trasformazione, che ci permette di leggere sotto un’altra luce le tensioni che attraversano il nostro tempo

di Olimpia Capitano

Pandemia. Una parola dietro la quale in questi quasi due anni si è nascosto uno stravolgimento della vita così come l’umanità l’ha conosciuta fino all’inizio del 2020. Tra i tanti approcci, se ne
potrebbe sottolineare uno possibile che segue un filo storico e ruota intorno al concetto di crisi. Partiamo dalla parola crisi, che risuona frequentemente nel nostro vocabolario quotidiano o
specifico e, anche, nell’indagine e nella riflessione storiografica. È un concetto che si ripresenta spesso come indice di significativi momenti di rottura ma pure come passaggio a una fase di transizione. La nozione di crisi (κρίσις) per i greci rappresentava quel momento in cui fosse stato possibile fare la diagnosi di una malattia, ossia il picco di manifestazione dei sintomi di un disturbo. Lo stesso concetto nel nostro senso comune significa sostanzialmente il contrario: traduce la difficoltà stessa di formulazione di una diagnosi e implica una progressione di incertezze.

Il termine deriva dal latino krisis, che significa scelta: anche qui torna l’idea della transizione, quando di fronte a una situazione delicata, il cambiamento degli equilibri e l’azione di forze contrastanti permette nuovi assestamenti. Il filosofo Edgar Morin ha prodotto una riflessione sul concetto di crisi come un intenso aumento di disordine e incertezza all’interno di un sistema collettivo, da interpretare come elemento rilevatore ed effettore: rilevatore di ciò che era nascosto, latente e conflittuale ed effettore nel mettere in moto energie che possono provocare destabilizzazione, ma anche cambiamento e trasformazione. Può sembrare un’idea artificiosa e senz’altro è una lettura complessa, che continua però a ritornare nella storia.

Partiamo da qui, dalla storia e dalle pandemie. Facciamo un salto indietro, fino al 1300, alla peste nera e alla grande crisi che attraversò l’intero secolo. Al di là dell’immagine distorta e metastorica del Medioevo come lungo periodo definito e caratterizzato da oscurità e regresso, se pensiamo al 1300 bisogna piuttosto pensare a una fase di crescita generalizzata. Per secoli (semplificando: a cavallo tra Alto e Basso Medioevo) il mondo dell’Europa occidentale aveva vissuto un forte miglioramento delle proprie condizioni materiali, economiche, tecnologiche, culturali. Era l’Europa di Carlo Magno, delle navi, delle bussole, dei sistemi di navigazione, dei rapporti sempre più intensi con l’Oriente, dei flussi di merci e idee. Si coltivava di più, si dava da mangiare a sempre più gente, erano cresciuti l’occupazione, il commercio e la circolazione monetaria. C’erano enormi disparità ma, in linea di massima e rispetto a periodi antecedenti, si viveva meglio e, dunque, la popolazione cresceva.

Il maggiore sviluppo delle colture però non era legato a sistemi intensivi di sviluppo tecnologica ma a sistemi estensivi: serviva più raccolto, si coltivava più terra. Inizialmente questa logica tenne perché c’era molto da bonificare ma, a lungo andare, si iniziò a coltivare anche dove in fondo non si sarebbe dovuto. In relazione a ciò, anzitutto, fu impossibile provvedere sufficientemente al fabbisogno della popolazione che iniziò a morire sempre più diffusamente perché aveva fame e da mangiare non c’era; inoltre, alcuni studi stanno cercando di indagare delle connessioni tra questo tipo di sfruttamento di risorse e la Piccola era glaciale che mostrò i suoi primi effetti proprio in quegli anni. Si fa riferimento a un periodo della storia climatica della Terra durato dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo, caratterizzato in Europa (per le altre aree del pianeta i dati sono meno affidabili) da una significativa riduzione della temperatura media.

A questi elementi si aggiunse di lì a poco la pandemia, la peste nera. Per le donne e gli uomini di allora tutto sembrò catastrofe, non solo perché effettivamente ci furono scenari drammatici, ma anche perché non si era più abituati a condizioni così avverse. La peste aveva continuato a imperversare durante e dopo l’impero di Giustiniano, circolando per un paio di secoli, ripresentandosi fino a inizio 700 e diventando un elemento centrale di quel lungo momento di immobilismo e stagnazione. Dal 700 però iniziò a scomparire e non si presentò per secoli, fino al 1347-1348. Fu una galera genovese, arrivata dal Mar Nero e sbarcata a Messina a portarne il bacillo, trasmessa agli uomini dai ratti e a questi dalle pulci. Questo fenomeno ebbe un impatto enorme sull’immaginario della gente così come nelle vite concrete e per un lungo periodo.

La peste continuò a tornare, diventando una malattia endemica che ogni 10-15 anni tornava, portando via una fetta della popolazione. Si moriva e morivano soprattutto le frange più povere della popolazione. I ricchi potevano rifugiarsi nelle proprie proprietà di campagna, in un lockdown agiato, come quello di cui ci parla Boccaccio nelle sue novelle. Nelle città, nelle baracche dove vivevano operai e indigenti, il numero dei morti cresceva a ritmi serratissimi.

È interessante pensare che alcuni studi ritengono che tra i motivi per cui la peste nera trovò un terreno così fertile per la sua propagazione ci fu anche quello del cambiamento climatico e delle carestie, che resero la popolazione più vulnerabile all’infezione. Il 1300 fu anche secolo di guerre e rivolte. Furono guerre a bassa intensità, ma lunghe ed esasperanti come la Guerra dei Cent’anni. Furono rivolte contadine e operaie, come quelle delle Jacquerie in Francia o come il tumulto dei Ciompi, operai tessili, a Firenze. Questi sembrerebbero elementi sufficienti per pensare al 1300 come a un’epoca di crisi, intesa come fase di declino e tensioni drammatiche.

La peste però finì e le cose iniziarono a cambiare. Il mondo non era più sovraffollato. Lo strato più basso della popolazione nelle città e nelle campagne, che più aveva sofferto la fame come la peste, scoprì che c’era bisogno di manodopera e che ci si poteva permettere di chiedere qualcosa di più. Operai e braccianti iniziarono a capire questa congiuntura e a chiedere di essere pagati di più o a rifiutare alcune proposte di salario perché, comunque, avrebbero potuto rivolgersi ad altri imprenditori.

Anche questi iniziarono a cambiare i propri investimenti. Tra climi glaciali ed effetti della pandemia si era lasciato molto spazio al pascolo e si era iniziato a valorizzarlo. Si produceva più carne, che costava meno e che, adesso, potevano talvolta permettersi anche quegli operai i cui nonni avrebbero solo potuto sognarla. Non solo, la crescita fu pure politica. Si è detto dell’intensità delle rivolte che iniziarono allora a tradursi in una maggiore consapevolezza e forza politica. Si stava radicando una nuova cultura della comunità che fece breccia soprattutto nelle campagne, dove i contadini iniziarono a riconoscere interessi comuni da difendere e a negoziarli con il signore e, se ce ne fosse stato bisogno, con il re, ottenendo franchigie, statuti, il permesso di avere un proprio consiglio e sindaco eletti e la possibilità di poter gestire parte dell’attività politica, decidendo per esempio autonomamente il calendario delle attività agricole.

Facciamo però adesso un salto in avanti fino agli anni Settanta del Novecento. In questi anni nell’immaginario ma pure nelle teorizzazioni, si pensava alle pandemie come a un fenomeno in regressione, inserito in un momento politico in cui il futuro prometteva un benessere diffuso e pure la fine dei germi. Fino a qualche anno fa la convinzione generale era infatti che le malattie infettive fossero destinate a sparire, o quantomeno che presto non avrebbero più rappresentato un fattore di mortalità significativo, lasciando sempre più spazio a malattie non trasmissibili come quelle cardiache e tumorali. Una “transizione epidemiologica” che, nel modello canonico teorizzato da Omran nel 1971, si compie anche attraverso il “progressivo recedere delle pandemie”.

In generale se si assume una prospettiva più globale, secondo dati recenti dell’Oms, quasi un decesso su cinque è dovuto a una malattia infettiva. Che diventa un decesso su due se si considera solo la metà del mondo più povera. Il problema però tocca anche la realtà nordoccidentale e non è legato alla narrazione di una parte del mondo “sottosviluppata”. Infatti, se partiamo da uno degli attuali e più evidenti effetti collaterali della crescita globale, cioè dal cambiamento climatico, possiamo osservare effetti imprevedibili dell’alterazione accelerata degli ecosistemi del
pianeta, legata ai cambiamenti che hanno investito l’industria alimentare, i traffici di merci, i viaggi internazionali. Con le parole di Luca De Crescenzo su Jacobin Italia si può dire che “piuttosto che annunciare il declino inesorabile delle malattie infettive, dobbiamo renderci conto che ogni grande cambiamento nella società, nella popolazione, nello sfruttamento della terra, nel clima, nella nutrizione, o nelle migrazioni è al contempo un evento sanitario con il suo quadro epidemiologico. Anziché sparire, le malattie infettive si evolvono insieme all’economia globale”.

Occorrerebbe forse dunque, leggendo la contemporaneità e imparando dal carattere trasformativo della storia, pensare in termini di ecologia politica, ossia rilevando la non autosufficienza del dato ambientale, da ripensare attraverso il rapporto tra natura e società, mediato dal sistema economico. La pandemia da Covid 19 ha polarizzato queste tensioni e ne ha aperte altre, che confermano l’intreccio tra elementi ambientali, economici, sociali, politici: si pensi alla crescente polarizzazione delle disuguaglianze socioeconomiche; al dibattito sulla transizione ecologica, sul salario minimo e sul reddito universale; alle lotte internazionali dei riders, dei drivers; alla stessa battaglia intrapresa dal Collettivo degli operai della Gkn.

Il parallelismo tra il Covid 19, la peste nera e la lunghissima “crisi del 1300”, ci parla senz’altro di altre epoche storiche, di altri fenomeni, di altri sistemi economici, sociali e politici. Nondimeno però, osservare quelle dinamiche con cautela e sottolineando le differenze prima che le assonanze – non si può non rilevare sia il carattere in parte endogeno di alcuni processi come il ciclo climatico intercorso tra 1300 e 1800; sia il carattere più “globalizzato” delle dinamiche e delle prospettive attuali – può in qualche modo essere utile per stimolare nuove immaginazioni. Infatti, se in entrambi i casi tanti elementi si sono intrecciati, aprendo uno scenario di crisi drammaticamente intesa, può avere storicamente senso riprendere e rimarcare anche un’altra idea, un’altra faccia della crisi come possibilità di trasformazione, che ci permette di leggere sotto un’altra luce le tensioni che attraversano il nostro tempo e la cui sostanza è ancora tutta da costruire.

Foto | Peste nera a Firenze in una edizione del XV secolo del Decameron di Giovanni Boccaccio – Wikipedia

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