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Monte dei Paschi di Siena, è ufficiale lo stop ai negoziati tra Tesoro e Unicredit. La politica: “Chiedere all’Ue più tempo per l’uscita dello Stato dal capitale”

Si torna al punto di partenza. E gli accordi con Bruxelles prevedono che il Tesoro debba cedere la propria partecipazione entro fine anno. In agosto il ministro dell'Economia Franco aveva spiegato in Parlamento che la cessione era inevitabile. Ora i presidenti delle Commissioni Finanze chiedono che riferisca. Senza una fusione, la ricapitalizzazione da almeno 4 miliardi necessaria per rispettare i parametri di vigilanza sarebbe a carico delle casse pubbliche. Andando a sommarsi ai 5,4 miliardi già spesi per il salvataggio del 2017, durante il governo Gentiloni

Si torna al punto di partenza. Come da anticipazioni di sabato, le trattative tra il Tesoro e Unicredit per la fusione del Monte dei Paschi di Siena con l’istituto di Piazza Gae Aulenti sono fallite. Via XX Settembre l’ha ufficializzato domenica pomeriggio con un comunicato in cui si legge che “nonostante l’impegno profuso da entrambe le parti”, sono stati interrotti i negoziati iniziati a luglio sulla “potenziale acquisizione di un perimetro definito di Banca Monte dei Paschi di Siena”. Nessuna spiegazione sui motivi dello stop, né su quali saranno le prossime mosse. L’ad di Unicredit Andrea Orcel, secondo indiscrezioni, aveva chiesto al ministero dell’Economia – primo socio della banca con il 64% – di farsi carico di una ricapitalizzazione da ben 7 miliardi, che si sarebbero aggiunti alle dote fiscale (2 miliardi) concessa al compratore con il decreto Sostegni: una richiesta troppo esosa secondo il governo Draghi, considerato che a pagare sarebbero i contribuenti. Resta il fatto che lo Stato, in base agli accordi presi con la Commissione europea quando nel 2017 il governo Gentiloni ha salvato la banca, dovrebbe uscire dal capitale entro fine anno. Tutto l’arco politico, dal Pd al Movimento 5 Stelle, chiede ora con varie sfumature all’esecutivo di negoziare un prolungamento della presenza pubblica.

Il governo guidato dall’ex governatore di Bankitalia, che nel 2007 autorizzò l’acquisizione di Antonveneta che avrebbe aperto una voragine nei conti di Siena, deve decidere come gestire questa grana. I presidenti delle commissioni Finanze di Camera e Senato, Luigi Marattin e Luciano D’Alfonso, hanno già chiesto che il ministro dell’Economia Daniele Franco o il direttore generale del Tesoro riferiscano “prontamente”, in coerenza con gli impegni presi da Franco durante l’audizione dello scorso agosto. Mentre la Lega attacca Enrico Letta, che il 4 ottobre ha vinto le suppletive per il seggio di Siena che fu dell’ex ministro e oggi presidente di Unicredit Pier Carlo Padoan, chiedendogli “che soluzione propone” dopo “mesi, anni, miliardi e posti di lavoro persi per colpa del Pd”. Il segretario dem non risponde nel merito ma, a Che tempo che fa, loda il ministero che” è stato assolutamente corretto: aveva preso impegni di valorizzazione del patrimonio e del territorio e del più antico marchio di banca del mondo. Non si poteva avere una svendita” come quella a cui “Unicredit pensava di partecipare”. Segue la richiesta di “avere più tempo nel rapporto con l’Europa per avere altre opzioni sul tavolo e che queste opzioni attuino i punti affermati da Franco: unità della banca e del marchio e salvaguardia del territorio. Secondo me ci saranno altre opzioni, sono sicuro”.

Una delle opzioni è dunque quella di trattare per una proroga della cessione di almeno sei mesi. Anche se non è detto che la Direzione generale concorrenza, a Buxelles, sia disponibile. E l’orientamento di Palazzo Chigi e Tesoro non sembrava essere questo. Il 4 agosto, audito in Parlamento, Franco aveva definito la cessione “inevitabile” spiegando che il piano al 2021 è stato realizzato solo in parte e il nuovo Piano industriale 2021-2025 non è del tutto conforme agli impegni assunti con Bruxelles, in particolare sulla riduzione dei costi: “Per raggiungere l’obiettivo di un rapporto costi/ricavi pari al 61 per cento previsto dal Piano, la Banca ha stimato circa 2500 esodi volontari“, aveva ricordato Franco. “Nel caso probabile in cui le interlocuzioni con la Commissione richiedessero di fissare un obiettivo di rapporto costi/ricavi più ambizioso, gli esuberi di personale potrebbero essere considerevolmente più elevati“. Sul fronte del capitale, poi, già a gennaio 2021 l’aumento necessario era stato stimato in 2,5 miliardi, cifra poi lievitata a quota 3 miliardi. Tutti elementi in base ai quali, secondo il ministro e fedelissimo di Draghi, “un piano di rafforzamento patrimoniale nel quale restasse un soggetto autonomo (la cosiddetta ipotesi stand-alone) sarebbe esposto a rischi e incertezze considerevoli e avrebbe seri problemi di competitività. Allo stato attuale, peraltro, non si ravvisano i presupposti e le condizioni per aprire una interlocuzione con la Commissione finalizzata a definire e concordare un piano di questo genere”.

Conclusione: “Non vi sono in questo momento le condizioni per mettere in discussione l’impegno di dismettere la partecipazione”. Ora però si riparte da zero. Senza fusioni, la ricapitalizzazione – che potrebbe lievitare oltre i 4 miliardi previsti in estate – sarebbe a carico delle casse pubbliche. Andando a sommarsi ai 5,4 miliardi già spesi per il salvataggio del 2017.