Come era immaginabile le parole di Alessandro Borghese hanno sollevato un polverone e ondate di commenti sui social. Al di là del merito delle sue parole lo chef, che lamenta la carenza di giovani disposti a fare il lavoro del cuoco perché faticoso, tocca un argomento molto caldo e attuale. Il cambio di paradigma che in tutto il mondo sta interessando il lavoro dopo la pandemia. Lo scorso agosto più di 4 milioni di statunitensi hanno dato le dimissione, nella maggior parte dei casi per quello che si chiamo “burnout”, una sorta di esaurimento psicofisico da lavoro.
La pandemia ha concesso alle persone un periodo per riflettere sulle proprie scelte di vita e alzare lo sguardo dalla routine quotidiana. In molti oggi non accettano più di fare quello che facevano prima alle stesse condizioni retributive e occupazionali. Un fenomeno che era stato descritto nel corso dell’estate dal premio Nobel all’Economia Paul Krugman che sul New York Times ha scritto: “Alcuni hanno realizzato i soldi che ricevevano per lavori poco piacevoli semplicemente non erano sufficienti. Ora non vogliono tornare alla loro vecchia occupazione se non a fronte di un aumento di stipendio sostanziale e/o condizioni di lavoro migliori”. Una lettura fatta propria dal presidente Usa Joe Biden che alle imprese che denunciavano la carenza di manodopera ha risposto semplicemente “pay them more”, pagateli di più e li troverete.
Negli Usa la tendenza è forse più accentuata che altrove ma dimissioni e carenze di personale interessano mezzo mondo, Cina compresa. L’Italia è storia a sé. L’Ocse ha recentemente evidenziato come il nostro sia l’unico paese tra le economie avanzate in cui i salari sono più bassi oggi che nel 1990. Eppure misure come il salario minimo vengono rigettate non solo da Confindustria e altre associazioni datoriali ma anche dai sindacati che temono un erosione del loro potere contrattuale a livello di Contratti collettivi dove oggi vengono definiti i minimi retributivi.