È incarcerato da due anni e mezzo nella prigione di massima sicurezza di Londra che doveva diventare la Guantanamo inglese: Belmarsh. Ha perso la libertà il 7 dicembre 2010: da allora non l’ha più riacquistata. Sono passati 11 anni. Domani mattina alla High Court di Londra si apre il processo di appello per decidere se Julian Assange verrà estradato negli Stati Uniti, dove rischia una condanna a 175 anni da scontare, in tutta probabilità, nel carcere americano più estremo: l’ADX Florence, in Colorado, dove sono rinchiusi criminali del calibro del re del narcotraffico, El Chapo Guzman.
Il processo che si apre domani a Londra durerà due giorni, ma la sentenza richiederà settimane, se non mesi. Nel gennaio scorso, il giudice inglese Vanessa Baraitser aveva rigettato la richiesta di estradizione delle autorità americane solo ed esclusivamente sulla base delle condizioni di salute del fondatore di WikiLeaks.
Baraitser aveva ritenuto fondato il rischio che, se trasferito in America e rinchiuso in una prigione tanto estrema come l’ADX Florence, sotto il regime speciale di detenzione SAM, caratterizzato da un feroce isolamento, Julian Assange potrebbe suicidarsi. Ma gli Stati Uniti hanno presentato appello contro questa sentenza di primo grado e nell’agosto scorso hanno ottenuto di rimettere in discussione lo stato di salute di Assange e, in particolare, le perizie psichiatriche della difesa che, invece, il giudice Baraitser aveva ritenuto ben fondate.
“La Cia voleva uccidere Julian Assange”
Nel processo di appello si deciderà su queste argomentazioni dell’accusa e della difesa e, forse, potrebbero giocare un ruolo anche i fatti emersi negli ultimi mesi. Come le rivelazioni di Yahoo! News che, in un’inchiesta basata su trenta fonti interne al governo e all’intelligence degli Stati Uniti, ha fatto emergere come nel 2017 la Cia – allora guidata da Mike Pompeo, nominato da Donald Trump – avesse pianificato di uccidere o anche di rapire Julian Assange e altri giornalisti di WikiLeaks.
Questi tentativi erano già emersi attraverso la deposizione di alcuni testimoni protetti in Spagna, dove è in corso un’indagine da parte dell’autorità giudiziaria, l’Audiencia Nacional, sulla UC Global, l’azienda spagnola che il governo dell’Ecuador aveva arruolato per proteggere la sua ambasciata di Londra, subito dopo che il fondatore di WikiLeaks vi si era rifugiato nel giugno del 2012 e vi era rimasto confinato per sei anni e otto mesi.
Almeno uno dei testimoni protetti, che in passato lavorava per la UC Global, ha riferito che nel dicembre del 2017 gli americani erano così disperati che Assange rimanesse rinchiuso nell’ambasciata, al di fuori della loro portata, che discussero con il capo della UC Global, David Morales, di lasciare aperta la porta dell’edificio per permettere di rapirlo e anche la possibilità di avvelenarlo.
Queste dichiarazioni dei testimoni protetti sono al centro dell’inchiesta della magistratura spagnola sulla UC Global, a Madrid. Chi scrive è tra le persone che sono state prese di mira dalle operazioni di spionaggio: il nostro telefono è stato aperto in due, in segreto, mentre incontravamo Julian Assange nell’ambasciata, il 29 dicembre 2017, i nostri incontri sono stati filmati e registrati e i nostri dispositivi fotografati uno per uno, non è chiaro con quali finalità.
Ora le rivelazioni di Yahoo! News accreditano l’ipotesi dei tentativi dell’intelligence americana di ammazzare Julian Assange.
L’inchiesta di ARTE
In una videoinchiesta (qui la versione sottotitolata in italiano) i giornalisti del canale europeo Arte.tv scavano nel caso UC Global e, più in generale, nel processo di estradizione con cui le autorità americane cercano di trasferirlo da Londra, in cui si trova, negli Stati Uniti e processarlo per la pubblicazione dei documenti segreti del Pentagono e della diplomazia americana.
Una delle persone intervistate da Arte è Nick Vamos, ex capo della sezione estradizioni del Crown Prosecution Service: l’agenzia del governo inglese che rappresenta la pubblica accusa. Nel procedimento di estradizione che si tiene a Londra, gli Stati Uniti devono agire tramite il Crown Prosecution Service. Vamos dichiara: “Mr. Assange non viene estradato per aver fatto giornalismo, non è accusato di essere un editore, è accusato di aver commesso dei crimini. Il concetto è che nessuno è al di sopra della legge”.
Curioso che Vamos non abbia letto l’atto di rinvio a giudizio del fondatore di WikiLeaks: gli Stati Uniti ne richiedono l’estradizione proprio per aver ricevuto e pubblicato i documenti segreti sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, i cablo della diplomazia Usa, le schede dei detenuti di Guantanamo. Documenti questi che hanno permesso di rivelare crimini di guerra, torture, uccisioni stragiudiziali con i droni. Ma mentre i criminali di guerra e i torturatori non hanno fatto una sola ora di prigione, Julian Assange non ha più conosciuto la libertà, dopo averli pubblicati.
Tutte le principali organizzazioni per la difesa dei diritti umani e della libertà di stampa, da Amnesty International e Human Rights Watch a Reporters Sans Frontières, si oppongono all’estradizione. E proprio ieri il Segretario Generale di Amnesty International, Agnès Callamard, ha chiesto pubblicamente agli Stati Uniti di annullare la richiesta di rinvio a giudizio, di non estradarlo e di consentire il suo rilascio immediato dalla prigione di Belmarsh.
Nell’inchiesta di Arte viene anche intervistato il capo della UC Global, David Morales, che nega assolutamente di essersi segretamente messo al servizio dell’intelligence americana negli anni in cui UC Global era responsabile della sicurezza dell’ambasciata. “Non ho mai lavorato per i servizi segreti nordamericani”, afferma Morales, che grida al complotto: “Mi hanno rovinato il futuro – dice alludendo all’inchiesta penale in cui è finito, che secondo lui è solo una strumentalizzazione della difesa di Julian Assange – per vincere il processo sull’estradizione”.
Morales nega tutto e liquida anche la denuncia di Stella Moris, la compagna del fondatore di WikiLeaks, che ha due bambini con lui, concepiti proprio nell’ambasciata, senza che la notizia delle due gravidanze fosse mai emersa pubblicamente, se non nel 2020, quando ormai Assange era in carcere a Belmarsh. Moris ha raccontato come fosse stata spiata e addirittura avvertita da uno dei lavoratori della UC Global di non portare più all’interno della sede diplomatica il primo figlio, Gabriel, perché le guardie della UC Global avevano ricevuto l’ordine di rubare uno dei suoi pannolini, nel tentativo di estrarne il Dna e stabilire che si trattasse del figlio di Julian Assange.
“Questa signora – accusa David Morales nell’inchiesta di Arte – aveva talmente tanta privacy che mentre era all’ambasciata è riuscita a concepire due figli. Strano, no?”. E commenta così la decisione di chi scrive di presentare denuncia all’autorità giudiziaria, dopo che abbiamo scoperto come i nostri incontri fossero stati filmati e il nostro telefono aperto in due: “Un’altra che crede di essere stata spiata”. E aggiunge: “Nell’ambasciata c’erano altri agenti, agenti dei servizi dell’Ecuador”.
Di fronte alle negazioni del capo della UC Global, i giornalisti di Arte hanno chiesto un parere a un ex agente dei servizi segreti francesi di nome Pierre Martinet. Come giudica il diniego risoluto di Morales, uno dell’esperienza di Martinet? “Vuole uscire vivo da questa storia – commenta l’ex agente francese – Reagisce con un trucco che è vecchio di secoli, negare fino all’ultimo”.
“C’è stata una grande cospirazione – conclude la compagna di Julian Assange -, un piano per tirarlo fuori dall’ambasciata, dove era protetto, e farlo finire in prigione, possibilmente negli Stati Uniti, per il resto della sua vita”. E aggiunge: “Il problema è che Julian non ha tempo davanti a sé, è in condizioni atroci“. Moris chiude con una dichiarazione di disperazione: “C’è il rischio che paghi con la sua vita”.
Nel processo di appello che si apre domani a Londra, fino a che punto questi fatti contribuiranno a decidere il destino del fondatore di WikiLeaks?