All’improvviso Mou sembrava essere diventato simile a Guardiola. regalava cioccolatini e complimenti, distribuiva melassa. Poi è arrivata la svolta e il surreale 6-1 contro il Bodø/Glimt ha segnato uno spartiacque: il suo ego non sopporta certe umiliazioni. E l’unica speranza per i tifosi è che il disagio del suo allenatore di fronte alla sconfitta diventi collettivo
Il copione è stato stravolto dopo poche settimane. Non più commedia romantica, ma one man show. D’altra parte le prime scene erano state spiazzanti. All’improvviso Mourinho sembrava essere diventato simile a Guardiola. Almeno nella sua capacità di regalare cioccolatini, di fare complimenti più o meno sinceri a qualsiasi avversario. Il portoghese non era più divisivo. Era addirittura unificatore. Per qualche mese il mondo aveva iniziato a girare al contrario. L’uomo che spargeva polemiche ora distribuiva melassa. A tutti. Il polemista che aveva dato del guardone a Wenger, che ha aveva definito “troppo vecchio” Ranieri, che aveva promesso di cercare su Google i trofei vinti da Zeman, era svanito nel nulla, scoppiato come una bolla di sapone. Al suo posto c’era un Mou di zucchero, un allenatore che aveva fatto i complimenti a Vincenzo Italiano dopo la vittoria sofferta sulla Fiorentina, che aveva chiamato Castori per informarsi sulle condizioni della moglie, colta da malore durante Salernitana–Roma, che era corso sotto la Curva per festeggiare la vittoria all’ultimo respiro contro il Sassuolo, che non si era lasciato andare neanche dopo la prima sconfitta stagionale, contro il Verona. José bacia tutti. José in pace col mondo intero. Ma solo fino a un certo punto.
Le cose sono cambiate in fretta. Mourinho ha iniziato a innalzare il livello della polemiche settimana dopo settimana. Dal post partita contro l’Udinese fino a quello con il Napoli. Le sue frasi sono diventate di nuovo taglienti, si sono fatte aforisma, titolo di giornale. “Il secondo giallo a Pellegrini voi lo definite severo, io lo definisco ridicolo“, aveva detto dopo l’espulsione che aveva strappato il derby a Lorenzo Pellegrini. “In dieci anni il calcio italiano è cresciuto enormemente. Nella qualità del gioco, nella voglia di vincere. Lo dico perché dieci anni fa ero qua e vedo che molte cose sono cambiate in meglio. Ma oggi l’arbitraggio e il Var non sono stati all’altezza di questa fantastica partita”, aveva detto dopo le polemiche per un atterramento di Zaniolo nell’area della Lazio che si era trasformato nel 2-0 per i biancocelesti. È una frase che suggerisce, non afferma. Che tira fuori dall’armadio scheletri impolverati e paure considerate estinte. José come Don Chisciotte. Solo che l’ultima volta anche lui era dalla parte dei mulini a vento.
La vera svolta è arrivata dopo la partita contro la Juventus. E non riguarda il grottesco episodio del vantaggio concesso ai giallorossi che ha convertito un loro gol in rigore a favore. Nel dopo partita Mou dice di non voler commentare. Ma commenta. Poi qualcuno gli domanda perché attenda sempre così tanto per fare i cambi, perché giochino sempre gli stessi calciatori. Il portoghese beve un goccio d’acqua. E poi risponde: “Ci sono panchine e panchine in Serie A. Oggi abbiamo giocato con una linea a quattro dove Karsdorp è stato in dubbio fino all’ultimo minuto. I tre difensori che avevo in panchina erano Reynolds, Kumbulla e Calafiori“. Poi Mourinho si spegne. Sta zitto per tredici secondi di fila. Picchiettando le dita sul tavolo della sala stampa. L’uomo che per anni si è fatto scudo, che ha creato tempeste e le ha telecomandate solo per difendere la sua squadra, ora punta il dito contro i suoi giocatori, dichiara pubblicamente che non sono all’altezza. È il rovesciamento esatto dello stile Mourinho. O forse no. È solo una presa di coscienza, parole private dette in pubblico come in una poesia di T.S. Eliot.
La gara di Conference League contro il Bodø/Glimt, numero 151 nel ranking Uefa, è qualcosa di così surreale dall’andare oltre l’idea di umiliazione. Finisce 6-1 per i norvegesi. Mourinho si presenta davanti ai microfoni e dice che il divario fra i titolari e le riserve è troppo ampio. “Adesso forse una cosa positiva è che nessuno mi chiederà perché giocano sempre gli stessi”, dice. “La formazione che ha iniziato la partita era meno qualitativa rispetto a quella impiegata dal Bodo. Se potessi giocare sempre con gli stessi lo farei, ma penso che sia rischioso perché abbiamo una differenza significativa di qualità tra un gruppo di giocatori e un altro”, afferma. La vera notizia arriva qualche giorno dopo. Nella sfida di campionato contro il Napoli di Spalletti, Mourinho manda in tribuna mezza squadra: Borja Mayoral, Villar, Diawara, Reynolds e Kumbulla. Sembra una follia, qualcosa di molto vicino al suicidio sportivo. Perché non è neanche novembre. E fino a giugno sarà necessario convivere con quei calciatori. E di tanto in tanto mandarli anche in campo.
La scelta di José è cinica e rivoluzionaria. Negli ultimi anni la Roma è stata una squadra che non si limitava a perdere, ma che doveva essere umiliata. Senza mai trovare altra reazione che l’isteria. È il club che afferma che “Florenzi è più forte di Dani Alves” e poi torna dal Camp Nou con un 6-1 sulla schiena. Che perde 7-1 contro la Fiorentina senza prendere provvedimenti, che viene sconfitta due volte a tavolino nella stessa stagione come se niente fosse. Una corsa a riscrivere la propria storia verso il basso che ha fatto perdere di vista anche gli alti toccati dal club (come la semifinale di Champions League). Mourinho è stata una ripartenza. Forse un azzardo. Perché senza giocatori di livello neanche uno che viene chiamato lo Special One può fare miracoli.
Eppure dopo tre mesi Mou è già qualcosa di mai visto per la Roma. Un po’ l’uomo che cammina sui pezzi di vetro di De Gregori, un po’ il firestarter, l’incendiario dei Prodigy, ha spiegato che non va sempre tutto bene, che dopo una debacle non basta dire “ci dispiace, ci impegneremo di più”, che il todos caballeros vale solo fino a un certo punto. Perché assuefarsi alla sconfitta, soprattutto a quelle sproporzionate, è la negazione del concetto di agonismo. Il portoghese ha riportato a Roma un concetto che sembrava essersi diluito e perso nel tempo: le sconfitte sono come cicatrici. Fanno male, si rimarginano, ma restano sempre visibili. “La partita contro il Bodø/Glimt è stata una cagata”, ha detto. “Quel 6-1 rimarrà nella mia storia ed è difficile perdonare, ma io non metto la croce sopra, conto di recuperarli”, ha spiegato dopo la partita con il Napoli. Una frase che fotografa esattamente la questione. L’ego di Mourinho non sopporta certe umiliazioni. E l’unica speranza che ha la Roma di uscire da questa spirale è che il disagio del suo allenatore di fronte alla sconfitta diventi collettivo. Un messaggio che è stato recepito alla perfezione dalla tifoseria che, dopo l’espulsione dell’allenatore per un plateale calcio alla bottiglietta, ha salutato il suo ingresso in tribuna con un’ovazione. José non è più zuccheroso. Le sue parole sono di nuovo aguzze, il suo sorriso ha lasciato di nuovo posto alle sue capacità attoriali. E questa è la migliore notizia per la Roma e i suoi tifosi.