“È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino è il film che l’Italia ha designato oggi per la corsa alla selezione per l’Oscar per il miglior film internazionale. La pellicola ispirata alla storia del supercampione di calcio Diego Armando Maradona ha già vinto a Venezia 78 il Gran premio della giuria ed è ancora inedita in sala: uscirà infatti al cinema il 24 novembre e poi su Netflix il 15 dicembre 2021. Adesso si attende di scoprire se entrerà nella shortlist delle candidature il prossimo 21 dicembre. “È il mio film più importante e doloroso e sono felice che tutto questo dolore oggi sia approdato alla gioia”, ha commentato il regista.
Ecco la nostra recensione dopo averlo visto in anteprima al Festival di Venezia:
È stata la mano di Dio è il velato, autentico, commovente (e a tratti clamorosamente divertente) quasi biopic che obiettivamente non t’aspetti. Dopo tanto menare con mestizia il can per l’aia dell’universo mondo, ecco l’episodio personale, l’adolescenza vissuta in prima persona sconvolta da un trauma familiare, come dall’arrivo di Maradona al Napoli. Una dimensione del racconto e dello scorrere del tempo che sembra calzare come un guanto al regista napoletano di ritorno sul set del capoluogo partenopeo dopo tanta grande bellezza romana (a proposito, nel film si dice: “Solo gli stronzi (inteso come cineasti/artisti ndr) vanno a Roma”).
Sorrentino fa mangiare la foglia. Sono il solito, o forse no. Subito il racconto della famiglia Schisa è puro realismo della propria memoria. Immaginario creativo comunque sopra le righe, sovrabbondante, sproporzionatamente carnoso, felliniano nell’anima e nelle forme (e Federico pure si sente durante un provino). Un’ora di rievocazione anni ottanta tutta marittima dove pulsano con una credibilità e un decoro verista inaudito il walkman e le sue musicassette (al muro ci sono anche i ripiani di legno a reggerle), il telefono fisso (e gli scherzi telefonici – ma chi li fa più oggi?), un cazzo disegnato sommariamente sui muri (pardon sullo specchio dell’ascensore), la casetta (e la neve) a Roccaraso come status symbol. La prima parte di È stata la mano di Dio è visivamente travolgente, mozza il fiato per ritmo e determinazione narrativa, per sorrentinismo stilistico appena accennato, trattenuto, e per l’esposizione naturale della sincera spensieratezza di quegli anni sovrapposti ad un solare coming of age. Di Maradona in fondo ce n’è pochetto. O meglio: il giusto. Soprattutto con la fantomatica partita Argentina-Inghilterra e la mano malandrina. Perché a Sorrentino interessa fare per una volta, cinematograficamente, l’Hitchcock.
Ed è come se nascondesse subito la “bomba” sotto il tavolo della storia per poi tessere una suspense continua, tragica ma irresistibile, un’attesa della disgrazia terrena palpabile ed evocata di continuo sia sentimentalmente (l’amante di papà che strazia mamma) che creativamente (lo spavento per l’orso). Insomma qualcosa di formalmente perfetto anche senza carrellate che si perdono nelle correnti d’aria del golfo. Infine l’ultimo terzo di film diventa più sottile, schiacciato, stretto all’interno della solitudine comunque creativa di Fabietto che cerca di capire presto cosa ne sarà di lui da poco più che 18enne. Brulicanti i piccoli intarsi dello svezzamento rapido (il rapporto con la baronessa, il dialogo con la zia, l’amicizia proibita con il ragazzo contrabbandiere di sigarette), ma è forse solo la presenza, anzi l’esplosione del regista Antonio Capuano (non quello vero, che comunque è stato al gioco prestando il proprio nome) con i suoi incessanti, urlati, furiosi consigli di vita (artistica) che Sorrentino fa tornare completamente in carreggiata il Fabietto/Paolo (futuro regista?) e l’intero È stata la mano di Dio. Finale da lucciconi agli occhi con un’inquadratura in controluce oltre il vetro di un treno e Pino Daniele che canta la sua Napoli.