Nessuna collaborazione. Di nuovo. L’Egitto, dopo le polemiche per il mancato sostegno e i dubbi sui numerosi depistaggi emersi dalle indagini sull’uccisione di Giulio Regeni, fa muro anche sul caso di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna in carcere dal 7 febbraio 2020. Il primo ministro del Cairo, Mostafa Madbouly, parlando a margine di un incontro all’Ocse di Parigi, ha risposto così a una domanda dei giornalisti riguardo a una possibile liberazione del giovane entro la fine dell’anno: “È una questione che riguarda i giudici. In quanto governo non possiamo interferire nel potere giudiziario. Crediamo che il nostro sistema giudiziario sia equo e che i giudici prenderanno la decisione giusta”.
Parole con le quali il Paese del presidente Abdel Fattah al-Sisi si tira indietro e cerca di togliersi di dosso la pressione della società civile sulla vicenda di Patrick Zaki e che non lasciano ben sperare per il processo appena iniziato con l’accusa di “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese”, con una pena che, in caso di condanna, può arrivare fino a cinque anni di carcere.
Ma queste dichiarazioni, seppur riferite allo specifico caso, se lette in termini generali rappresentano anche una pessima notizia per un altro processo che coinvolge da vicino l’Italia: quello sul sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni. Al termine della prima udienza che si è tenuta nell’aula bunker di Rebibbia, i giudici hanno infatti stabilito che, in mancanza della notifica formale ai quattro imputati, il procedimento non può andare avanti. Senza che sia mai arrivata una risposta alla rogatoria dei pm romani incaricati delle indagini, starebbe al governo del Cairo collaborare con le autorità italiane facendo arrivare la comunicazione ai quattro agenti della National Security accusati a vario titolo del sequestro, delle torture e dell’omicidio del ricercatore di Fiumicello. Ma dai vertici del Paese di al-Sisi non è mai arrivata alcuna collaborazione. Semmai, si è sempre appoggiato il lavoro dei procuratori locali che, come dimostrato da varie inchieste giornalistiche, continuano a sponsorizzare la teoria della rapina finita male. Versione che si è già dimostrato essere un depistaggio.