Dario Fontana, ricercatore di Sociologia del lavoro del servizio di epidemiologia del Piemonte, nella ricerca "Digitalizzazione industriale – un’inchiesta sulle condizioni di lavoro e salute" (Franco Angeli) ha studiato gli effetti dello sviluppo tecnologico su più di mille lavoratrici e lavoratori – svolta all’interno di otto aziende operanti nei settori produttivi agroalimentare, metalmeccanico, ceramica, biomedicale, logistico, bancario
Riceviamo e pubblichiamo l’intervento di Dario Fontana, ricercatore di sociologia del lavoro del servizio di epidemiologia del Piemonte, sui contenuti della sua ricerca “Digitalizzazione industriale – un’inchiesta sulle condizioni di lavoro e salute” (Franco Angeli).
Negli ultimi anni la digitalizzazione si è imposta come direzione strategica delle trasformazioni sociali, sia nell’ambito dei consumi che in quello della produzione. Non è un caso che la gestione di questo nuovo sviluppo tecnologico sia uno dei pilastri del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il dibattito pubblico si è quasi del tutto focalizzato sulle possibili conseguenze occupazionali, tese alla possibile riduzione della forza lavoro, ma pochissimo si è detto sulla qualità del lavoro di chi opererà con questa nuova tecnologia. Si tende a pensare, forse molto semplicemente, che qualsiasi traiettoria dello sviluppo tecnologico sia di per sé positiva. Tuttavia, è forse bene ricordare che anche la digitalizzazione è un fatto sociale e se la scienza permette diverse possibilità sperimentali, solo alcune diverranno realtà. La digitalizzazione industriale è quindi un’espressione politica che va governata, non accettata o rifiutata a priori. Ci si dovrebbe chiedere: chi ne avrà la direzione politica? In base a cosa saranno scelti i processi produttivi da digitalizzare? Gli interessi delle imprese coincidono sempre con quelli dei lavoratori?
Analizzare le condizioni di lavoro è utile a comprendere se la direzione dello sviluppo tecnologico stia rispettando il suo dovere etico finale, quello di un miglioramento collettivo. In questa direzione rientra la ricerca dal titolo Digitalizzazione industriale – un’inchiesta sulle condizioni di lavoro e salute (edita dalla FrancoAngeli). Un’indagine – che ha coinvolto più di mille lavoratrici e lavoratori – svolta all’interno di otto aziende operanti nei settori produttivi agroalimentare, metalmeccanico, ceramica, biomedicale, logistico, bancario.
Purtroppo emerge un quadro alquanto preoccupante. Il primo elemento che si impone con forza è la presenza di un’alta intensificazione del lavoro e standardizzazione delle procedure. All’interno dell’intensificazione, la variabile che la fa da padrona è una richiesta di alta velocità della prestazione. Entrambe le dimensioni sembrano quindi risultare un elemento strutturante a cui la digitalizzazione non solo si è adeguata, ma assurge da catalizzatore, in particolare verso un aumento dei carichi di lavoro. L’altra faccia della medaglia corrisponde a un basso spazio di decisionalità. Il controllo complessivo sull’organizzazione del lavoro (e su altri aspetti fondamentali come la tecnologia e gli obiettivi produttivi), sembra ancora vincolato – nella sua essenza – a una direzione aziendale che esclude i lavoratori dai processi decisionali. All’interno del processo produttivo si assiste invece ad un “effetto forbice”, cioè aumenta la complessità del lavoro senza che ad essa segua un congruo aumento dell’autonomia. Ben che vada l’autonomia appare confinata alle sole pratiche di “problem solving” e più in generale alla gestione della mansione entro i rigidi confini decisi dall’azienda. In generale, più aumenta il grado decisionale più diminuisce la quota di lavoratori coinvolti. Entrando nello specifico rapporto uomo-macchina (intesa anche come software), la maggioranza degli intervistati ritiene di essere determinata nel proprio agire dalla macchina e non viceversa, vivendo una bassa o addirittura nulla interazione con essa, ricevendo solo indicazioni o al massimo inserendo dei dati attraverso vincoli e prescrizioni molto rigidi.
A queste dimensioni centrali dell’organizzazione del lavoro si affianca una percezione delle relazioni socio-organizzative non brillante: bassa cooperazione e un lavoro fortemente individualizzato, una diseguale distribuzione del lavoro e una forte insicurezza di esso, intesa come alta paura della disoccupazione e precarietà, pericolo di sostituzione sia da parte della tecnologia ma anche di una concorrenza a basso costo e grande difficoltà a riciclarsi nel mondo del lavoro.
Tuttavia, il quadro fin qui sinteticamente riportato non comporta solo un giudizio negativo in campo organizzativo, ma effetti materiali che investono la salute. Dalle statistiche italiane e internazionali emerge come i disturbi muscolo-scheletrici e le patologie legate allo stress lavoro-correlato – di cui entrambi gli andamenti risultano in preoccupante ascesa – siano ormai malattie professionali strutturali all’attuale modo di produzione. Patologie che, come da letteratura scientifica, sono direttamente collegate all’aumento dell’intensificazione del lavoro e alla diminuzione dello spazio decisionale. Infatti, affiora un profilo di alto rischio stress per la maggioranza dei lavoratori e, in particolare, chi lavora con macchine digitali evidenzia più del doppio delle probabilità rispetto ai “lavoratori classici” di incorrere nel rischio stress. A cascata, anche la salute mentale segna un dato preoccupante: nello specifico una cattiva salute mentale appare fortemente associata a un contesto ad alto rischio stress. Inoltre, in un contesto intensificato, i disturbi muscolo-scheletrici non possono che raggiungere livelli allarmanti. Fra i lavoratori intervistati solo il 18% non dichiara nessun disturbo e oltre il 70% dei disturbi dichiarati (decisamente fuori norma) risulta statisticamente associato all’attività lavorativa. Tale rapporto fra lavoro e salute appare chiaro ai lavoratori: chi dichiara cattive condizioni di lavoro non solo giudica come pericoloso il proprio contesto lavorativo, ma tende anche a riconoscere la genesi di tale degrado all’interno di una concezione di scambio inversamente proporzionale fra lavoro e salute.
Molto altro emerge da questa ricerca, ma ciò basta quantomeno a smentire una direzione automaticamente emancipante delle condizioni di lavoro. Non vi è un unico modello organizzativo possibile e non vi è neppure un’unica tecnologia digitale per ottenere gli stessi prodotti o fornire i medesimi servizi. Il nodo centrale risiede sul come si sceglie e chi agisce il potere di tali scelte. Il richiamo ad un nuovo corso sindacale diviene di conseguenza sempre più urgente, nella direzione di un’acquisizione di nuove competenze in merito alla contrattazione della moderna organizzazione del lavoro.