Cultura

“DeAndré#DeAndré. Storia di un impiegato”, nel docufilm il dialogo mai interrotto tra Fabrizio e Cristiano. Il figlio: “Solo così mi posso salvare”

Presentato alla 78esima edizione del Festival di Venezia, il film diretto da Roberta Lena ci mostra Faber attraverso le parole - e gli occhi - del figlio Cristiano. Che ha deciso di interpretare l'album del '73, manifesto per la libertà. Tanti gli aneddoti, ma anche i non detti. E, naturalmente, le lacrime

di Alberto Marzocchi

Mio padre…”. Cristiano sta parlando di Fabrizio. Siamo circa a metà film – film, non documentario – e in sala c’è chi ha già pianto più di una volta. A quel centesimo “mio padre”, incipit di un nuovo racconto di vita, più o meno quotidiana, tra i due, in quello che per certi versi è un dialogo mai interrotto, come succede a chi ha perso il proprio genitore anzitempo (qualcuno lo definirebbe una “smisurata preghiera”), viene in mente una frase di un libro: “Io sono solo, e loro sono tutti”.

Dagli occhi, dalla profondità spiazzante dello sguardo catturato dai primissimi piani di DeAndré#DeAndré. Storia di un impiegato, dalla curva delle labbra e dalle parole spesso sussurrate, si capisce che Cristiano, nel dialogo col padre “con quel cognome così importante”, ha dovuto fare i conti col proprio sottosuolo, col proprio inconscio. E come il protagonista, voce narrante di Memorie dal sottosuolo di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, si è trovato solo. E tra gli altri – che poi “sono tutti” – c’è Fabrizio, il cantautore. Suo padre.

L’uomo che avrebbe scritto La buona novella (1970), dice Cristiano, “per fare un dispetto a me e a mia sorella Luvi”. L’uomo che “nelle canzoni ci mandava delle frecciate”. Esempio? La Teresa di Rimini (Rimini, 1978), che abortisce il figlio del bagnino, per poi guardarlo con dolcezza. O in Oceano (Volume 8, 1974), in cui “l’unico verso che ha scritto è ‘ti offenderesti se qualcuno ti chiamasse un tentativo’. Era un messaggio per me e per Luvi: voleva che ci trasformassimo in fuoco”, perché non sopportava l’idea che rimanessero scintille. O fiammelle. L’uomo che lo piantava in Sardegna mentre se ne andava in giro per l’Italia a suonare. Lasciandolo, appunto, da solo.

DeAndré#DeAndré. Storia di un impiegato, regia di Roberta Lena, è più un film che un documentario. Da una parte c’è l’album omonimo, del ’73, che Cristiano ha portato nei teatri nel 2019, con la sua straordinaria attualità e che in una sorta di viaggio nel tempo si sovrappone alle immagini delle rivolte degli anni Settanta, a quelle del G8 di Genova, alle proteste per il clima dei giorni nostri, ai faccioni di Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan che mangiano il gelato insieme, alla danza delle combattenti Ypg, al movimento Black Lives Matter; dall’altra c’è il Cristiano che dice e che non dice. Che rivela e che sprofonda nel sottosuolo.

Memorabile, allora, il racconto della casa di Portobello di Gallura, con Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi, Walter Chiari e Fabrizio che si alternano su un palchetto, 15 minuti a testa, e improvvisano il loro personale, casalingo spettacolo. O il pomeriggio alla Shining in cui Cristiano si nasconde in bagno, perché non vuole andare a Tempio Pausania, col padre, e il padre prende un’accetta e inizia a buttare giù la porta. O quando irrompe Verranno a chiederti del nostro amore, cantata da Fabrizio alla prima moglie, madre di Cristiano, Enrica “Puny” Rignon, nella notte, appena ha finito di scriverla. E lei scoppia a piangere, perché si stavano lasciando. E giù lacrime, quando sullo schermo, 46 anni dopo, compare il figlio, dietro il pianoforte, e attacca: “Quando in anticipo sul tuo stupore….”.

Cristiano tira fuori Edipo, quando parla del padre “con quel cognome così importante”, e dice che l’unica cosa possibile da fare “è sopravvivere”. Più avanti confesserà: “Ho l’età di mio padre quando mi ha lasciato. Attraverso la musica porto in giro le sue parole. È un atto salvifico. Facciamo così, no? Ci aggrappiamo a chi è riuscito a guardare il mondo da un po’ più in alto”. E tra un Jacques Lacan che ha fallito e un Bernardo di Chartres che ha retto al giudizio della storia (“siamo come nani sulle spalle dei giganti”), per concludere il ragionamento su DeAndré#DeAndré. Storia di un impiegato, si torna al principio, a Dostoevskij e a Memorie dal sottosuolo: “Nei ricordi di ogni uomo ci sono certe cose che egli non svela a tutti, ma forse soltanto agli amici. Ce ne sono altre che non svelerà neppure agli amici, ma forse solo a se stesso, e comunque in gran segreto. Ma ve ne sono infine, di quelle che l’uomo ha paura di svelare perfino a se stesso, e ogni uomo perbene accumula parecchie cose del genere”.

Twitter: @albmarzocchi

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