Queste le ragioni della condanna a tre anni e sei mesi inflitta in aprile all'ex direttore generale della Asl di Bari Domenico Colasanto, ritenuto responsabile di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e omissione di atti d’ufficio. Secondo il Tribunale di Bari "l'azione omicidiaria non ha incontrato alcun ostacolo alla furia assassina" di Vincenzo Poliseno, il 41enne che sta scontando 30 anni di carcere
La sicurezza sul lavoro fu sacrificata per favorire le logiche del risparmio. In particolare fu “piegata alle esigenze del budget“. Questa la motivazione individuata dai giudici del Tribunale di Bari per la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione, inflitta nell’aprile scorso, nei confronti dell’ex direttore generale della Asl di Bari Domenico Colasanto, ritenuto responsabile di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e omissione di atti d’ufficio. I fatti: il 4 settembre 2013 un paziente di un Centro di salute mentale accoltellò a morte la psichiatra Paola Labriola, con 57 colpi.
“Pur essendo a conoscenza della situazione di pericolo e degli episodi di aggressione e minacce subite dal personale del centro – scrivono i giudici – il direttore generale ha omesso consapevolmente di adottare i provvedimenti idonei per garantire la sicurezza”. Parlano di “crimine tristemente annunciato”, perché in quel centro “l’azione omicidiaria non ha incontrato alcun ostacolo alla furia assassina” di Vincenzo Poliseno, il paziente 41enne che per il delitto sta già scontando una condanna definitiva a 30 anni di reclusione.
La vittima, infatti, non aveva possibilità di fuga: la stanza aveva un’unica porta d’ingresso e non aveva alcuna uscita di sicurezza, non c’erano dispositivi sonori di allarme, il personale era tutto femminile, il videocitofono non era funzionante e la porta d’ingresso era apribile dall’esterno con una semplice spinta. “La colpa” dell’allora direttore generale “consiste – secondo i giudici – nel non aver predisposto un servizio di vigilanza adeguato, vanamente richiesto a seguito del verificarsi di episodi di minacce ed aggressioni al personale sanitario di quel Csm”, per una “sottovalutazione del rischio” dovuta alla “impostazione economicistica delle funzioni della sanità, piegate alle esigenze del budget, che denota la principale preoccupazione di molti manager pubblici della sanità, ossia l’equilibrio di bilancio, piuttosto che la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori”.
“Per la sua palese inadeguatezza e pericolosità – si legge nella sentenza – dopo l’omicidio il centro è stato dismesso e il personale trasferito, mentre fino all’omicidio i vertici Asl, pur consapevoli delle condizioni di rischio per la sicurezza degli operatori, restarono quasi inerti. Solo a seguito del tragico evento, della conseguente emozione suscitata nell’opinione pubblica, Colasanto – ricordano i giudici – si attivava per l’esecuzione delle misure necessarie al potenziamento della sicurezza nei centri di salute mentale della Asl”, facendo installare telecamere a infrarossi nei corridoi e nelle sale d’attesa, pulsanti di chiamata sotto le scrivanie dei medici e prevedendo la presenza di personale di vigilanza. Per “coprire” tutte queste omissioni sulla sicurezza, dopo il delitto fu anche creato un falso documento di valutazione dei rischi, che è costato ad un altro imputato, l’ex funzionario Asl Alberto Gallo, autore del falso Dvr, la condanna a 3 anni di reclusione.