I vertici di Exxon Mobil, Chevron, BP e Shell hanno dovuto difendersi in un udienza che, per certi versi, ha ricordato quella del 1994 ai magnati dell'industria del tabacco. I quattro dirigenti sono stati sollecitati, ma non hanno riconosciuto le loro colpe e, tantomeno, hanno rifiutato di assumere impegni specifici per limitare l'utilizzo dei combustibili fossili
Disinformazione sugli effetti del petrolio sulla crisi climatica e ostruzionismo sulle azioni per contrastarlo. È questa l’accusa per le Big Oil: i vertici di Exxon Mobil, Chevron, BP e Shell hanno dovuto difendersi davanti al Congresso statunitense in un udienza che, per certi versi, ha ricordato quella del 1994 ai magnati dell’industria del tabacco. La storica audizione di sei ore si è tenuta quasi in coincidenza con la partenza del presidente Joe Biden per la Cop 26 a Glasgow. Resta da capire se riuscirà a influire sull’approvazione e sugli effetti del suo ambizioso piano da 1.750 miliardi – di cui 555 miliardi destinati alle energie rinnovabili – per raggiungere la neutralità climatica. I quattro dirigenti sono stati sollecitati, ma non hanno riconosciuto le loro colpe e, tantomeno, hanno rifiutato di assumere impegni specifici per limitare l’utilizzo dei combustibili fossili.
L’interrogatorio più serrato è stato quello di Darren Woods, amministratore delegato di Exxon. La presidente del comitato di sorveglianza della Camera, la democratica Carolyn Maloney, lo ha incalzato su alcune dichiarazioni del suo predecessore, Lee Raymond. Negli anni ’90 aveva infatti affermato che le prove scientifiche per il cambiamento climatico erano “inconcludenti” e che “il caso del riscaldamento globale è lontano”. Nel 2002, il gigante del petrolio aveva poi pubblicato numerosi annunci sul New York Times che definivano la scienza del clima “instabile”. Già al tempo però, alcuni consulenti del gruppo – come il geochimico Edward Garvey che ha testimoniato in aula – avevano ripetutamente avvertito l’azienda della minaccia derivante dalla combustione del petrolio fin dagli anni ’70. “C’è un chiaro conflitto tra ciò che il Ceo di Exxon ha detto al pubblico e ciò che gli scienziati di Exxon hanno riferito in privato per anni” ha affermato Maloney. Woods però ha negato tutto, dicendo di non riconoscere alcuna “incoerenza o inganno”. La stessa tesi che hanno sostenuto i suoi colleghi. “Accettiamo il parere scientifico – ha affermato Michael Wirth, Ceo di Chevron – Il cambiamento climatico è reale. Che la Chevron sia impegnata nel fuorviare il pubblico su queste complesse questioni però è semplicemente sbagliato”. Eppure i rapporti di Inside Climate News e Los Angeles Times hanno dimostrato che le compagnie petrolifere erano a conoscenza dei danni che stavano causando e che hanno tentato – e stanno ancora continuando a farlo – di insabbiare prove e documenti in tutti i modi. È stato infatti necessario un mandato di comparizione per richiedere la loro testimonianza.
Le Big Oil, nel corso degli anni, avrebbero anche fatto pressioni – investendo milioni di dollari – sul Congresso per impedire l’approvazione di norme ambientali più stringenti. Solo nello scorso anno l’industria del petrolio e del gas ha speso circa 100 milioni di dollari in lobbying politico. Come testimonianza, la presidente Maloney ha mostrato un video, registrato segretamente da Greenpeace, di un lobbista della Exxon: l’uomo descrive il sostegno del gigante petrolifero a una tassa sulle emissioni come uno stratagemma di pubbliche relazioni per bloccare misure più serie. Le compagnie poi – secondo il democratico Ro Khanna – avrebbero strategie unitarie: quando in Europa Shell e BP si mostrano intenzionate a diminuire le perforazioni, Exxon e Chevrion le aumentano negli Usa e viceversa. Sul banco degli imputati anche i leader di American Petroleum Institute e US Chamber of Commerce. L’Api ha ricevuto – sempre secondo Khanna – numerosi finanziamenti dalle aziende incriminate per aver resistito all’espansione delle infrastrutture per i veicoli elettrici e si è opposta a una tassa sul metano, sostenuta da Biden. Ciliegina sulla torta: ha inondato Facebook con pubblicità negli ultimi mesi in favore di vetture a benzina.
Nonostante l’attacco serrato e su più fronti anche da parlamentari più radicali – come quelle della “Squad” formata da Alexandria Ocasio-Cortez (DN.Y.), Rashida Tlaib (D-Mich.), Ayanna Pressley (D-Mass.) e Cori Bush (D-Mo. ) – i dirigenti non hanno ceduto. Hanno trovato anzi il sostegno di numerosi deputati repubblicani. Il rappresentante Clay Higgins ha definito l’udienza “una minaccia dall’interno” perché lo stile di vita americano è stato costruito sul petrolio. James Comer ha addirittura messo in dubbio la legittimità dell’indagine, accusando il partito rivale di voler distogliere l’attenzione dai fallimenti del presidente. Hanno invitato Maloney a scusarsi con Big Oil e hanno portato in aula anche Neal Crabtree, un operaio che ha affermato di aver perso il lavoro come saldatore all’oleodotto Keystone Xl Pipeline tre ore dopo il giuramento di Biden. Ben prima che il Comitato di sorveglianza avviasse la sua indagine però, cinque stati e più di una dozzina di città avevano intentato azioni legali contro l’industria petrolifera. Hanno infatti sperimentato gli effetti della pubblicità ingannevole che nega l’innalzamento dei mari, le siccità e gli incendi sempre più intensi.