di Roberto Iannuzzi*

Sono alcune settimane che l’Italia è percorsa da manifestazioni di migliaia di persone che protestano contro il green pass obbligatorio nei luoghi di lavoro, spesso ignorate dalla grande informazione se non per denunciare presunte “derive fasciste” di tali proteste. Eppure il fenomeno è di proporzioni tali che non può essere sminuito o deriso, come invece hanno fatto finora alcuni media nazionali.

Il green pass è stato descritto dal governo come una misura ovvia, di buon senso, uno “strumento di libertà” per ritornare alla vita normale. Ma così non è dal punto di vista giuridico né da quello sanitario. Non lo è dal punto di vista giuridico, visto che il Garante della privacy aveva espresso numerose perplessità sul provvedimento governativo, che avrebbe potuto determinare discriminazioni fra i cittadini. Nelle parole del Garante, la posta in gioco è infatti “la limitazione delle libertà personali effettuata anche attraverso il trattamento di dati sulla salute degli interessati, realizzata attraverso la previsione di subordinare l’accesso a luoghi e a servizi al possesso di una certificazione attestante l’avvenuta vaccinazione o guarigione da Covid-19, o l’esito negativo di un test antigenico o molecolare”.

Ma il green pass non è una misura ovvia neanche dal punto di vista sanitario, essendo la sua efficacia in termini di contenimento del contagio quantomeno controversa. La stessa Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), in sede di approvazione dei vaccini, aveva ammonito, a differenza di quanto ora sostiene l’esecutivo, che “essere vaccinati non conferisce un ‘certificato di libertà’ ma occorre continuare ad adottare […] misure di contenimento del rischio di infezione”. Vi era infatti la possibilità che i vaccinati continuassero a infettarsi e a contagiare.

Numerosi studi scientifici ora confermano che l’efficacia dei vaccini nel prevenire il contagio cala rapidamente dopo pochi mesi dall’inoculazione e che la possibilità che i vaccinati trasmettano il virus è percentualmente non molto inferiore a quella dei non vaccinati. Allora perché estendere al mondo del lavoro e dell’università una misura inefficace e persino controproducente (poiché dà un senso di falsa sicurezza ai possessori di green pass), andando a toccare diritti fondamentali come quello al lavoro e allo studio? Per capirlo, sarà utile esaminare più a fondo questo strumento.

Per introdurlo, l’Italia si è dotata di un’imponente infrastruttura tecnologica, la piattaforma nazionale-digital green certificate (PN-DGC), che ha caratteristiche di interoperabilità con quella europea, l’European Digital Green Certificate Gateway (EU-DGCG). Essa contempla la possibilità di usare tecnologie a registri distribuiti (blockchain) per la validazione e protezione dei dati. In altre parole, il passaporto sanitario è una forma embrionale di identità digitale. L’Ue prevede l’introduzione di un sistema complessivo di identità digitale che dovrebbe essere utilizzato dall’80% dei cittadini europei entro il 2030. Il Covid ha favorito la massiccia introduzione di sistemi di identità digitale in tutto il mondo.

L’identità digitale sarà un elemento cardine della cosiddetta Industria 4.0 (in particolare per la gestione delle cosiddette “smart cities”), per la cui realizzazione è in atto una serrata competizione globale, in special modo fra Cina e Occidente. Tuttavia, l’identità digitale pone enormi problemi di tutela della privacy e della libertà stessa dei singoli cittadini, poiché li rende virtualmente tracciabili in tutte le loro attività, oltre che dipendenti da tecnologie ancora non completamente sicure per l’erogazione di servizi essenziali. Tecnologie come l’identità digitale ed altri sistemi di tracciamento conferiscono agli Stati poteri di sorveglianza di massa senza precedenti nella storia. Il problema si pone naturalmente innanzitutto per regimi scarsamente democratici che hanno introdotto sistemi di identità centralizzati. Ma anche in un sistema parzialmente decentralizzato come quello europeo diversi rischi permangono.

Vi è poi un altro elemento del green pass che desta preoccupazione. L’accesso del cittadino agli spazi pubblici e lavorativi (cioè, il godimento di alcuni diritti fondamentali) è subordinato all’ottemperanza di una data condizione posta dal governo, attraverso un permesso (si badi bene) temporaneo. Attualmente tale condizione è la vaccinazione contro il Covid, e il permesso ha durata annuale. Ma questo schema potrebbe essere utilizzato in futuro per imporre una nuova misura sanitaria (terza dose, richiamo annuale?) o anche non sanitaria. In altre parole, il meccanismo del green pass non è dissimile da un sistema di credito sociale come quello in corso di sperimentazione in Cina.

Si obietterà che viviamo in uno paese democratico in cui lo stato di emergenza dettato dalla pandemia necessariamente cesserà. Tuttavia la struttura digitale posta in essere con il green pass certamente non scomparirà. E lo stato di salute della democrazia italiana, spesso “commissariata” e con un parlamento sempre più marginalizzato, non è incoraggiante. C’è da chiedersi: il governo non dovrebbe essere più trasparente sulle finalità di una piattaforma tecnologica come il green pass? I cittadini non dovrebbero essere maggiormente informati su trasformazioni che possono cambiare radicalmente la loro vita?

* Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
Twitter: @riannuzziGPC
Medium: @roberto.iannuzzi

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