Mi ha colpito molto la storia del poliziotto penitenziario insultato e minacciato in rete perché scambiato per l’autore di violenze durante una manifestazione no green pass. Lo scambio di persona – probabilmente frutto di una vaghissima somiglianza tra i due – sarebbe avvenuto con la diffusione virale di un messaggio WhatsApp da parte di soggetti forse non ancora identificati.
La vicenda è davvero allarmante: qualcosa del genere potrebbe accadere a ognuno di noi. C’è infatti da ragionare sulla facilità con cui simili delitti possano essere perpetrati, persino con buone chance di farla franca. Giampietro Pegoraro, sindacalista della Fp-Cgil per la Polizia Penitenziaria, è d’accordo con me: “Quello che è accaduto al poliziotto penitenziario ha dell’incredibile, oltre a essere spiacevole. Cose del genere non dovrebbero accadere, anche se a volte la tecnologia può indurre a commettere errori. Sarebbe opportuno nascondere i volti, prima di divulgare certe immagini, perché con estrema facilità si possono indurre le persone all’errore di identificare soggetti estranei ai fatti. Come sindacato siamo solidali con il poliziotto penitenziario che ingiustamente ha subito questo scambio di persona, con l’auspicio che non accada mai più”.
È dunque urgente una riflessione seria sui social, che troppo spesso diventano un’arma eccezionale per i delinquenti. Andrebbe perciò valutata l’opportunità di una loro più stringente regolamentazione, mentre la solita obiezione mossa da chi si appella all’art. 21 della Costituzione ha poco filo da tessere: la libertà di pensiero e di espressione non può in alcun modo tradursi in libertà di offendere o di minacciare. Al contrario, come ci ha insegnato Stefano Rodotà, la Carta del 1948 mette al centro la persona e la difesa della dignità.
Pensiamo a quanto siano lesivi i reati d’odio, commessi in rete, che colpiscono le persone più vulnerabili, quando cioè la vittima è una donna, un disabile, un minore, un omosessuale, ecc. I danni, in questi casi, sappiamo bene che possono essere gravissimi e non sempre il diritto penale risponde in maniera efficace. Pensiamo, per esempio, al reato di diffamazione aggravata a mezzo social che può rovinare la vita a chiunque ma comporta al massimo una condanna a soli tre anni di reclusione. Su questo non ha dubbi Daniele Tissone, segretario generale del Silp-Cgil: “Credo che sia giunto il momento di affrontare il problema, disciplinandolo in maniera diversa rispetto a oggi, in particolare al fine di evitare le gravi conseguenze, anche permanenti, che un uso distorto dei social può avere sui più giovani”.
Il legislatore non deve restare inerte di fronte a un crimine digitale sempre più insidioso. Le pene vanno commisurate alla assoluta gravità di questi comportamenti. Alla magistratura e alla polizia giudiziaria vanno attribuiti strumenti idonei per contrastare delitti sempre più frequenti – in media sono 800 al giorno secondo gli ultimi dati del Dipartimento della pubblica sicurezza – e di difficile ricostruzione. Per ottenere un livello adeguato di deterrenza, mi permetto di suggerire, oltre al netto inasprimento delle pene, anche la previsione della confisca dei beni (penale e di prevenzione). Solo così odiatori e diffamatori del web cominceranno a darsi una regolata.