Dal G20 di Roma alla Cop26 di Glasgow, i leader mondiali sono chiamati - per l'ennesima volta - a trovare un accordo per ridurre la tendenza del pianeta al riscaldamento globale. Ma, tra leader negazionisti e scontri diplomatici, il cammino è in salita. Ecco una mappa degli interessi (e delle dipendenze) dei paesi in gioco
Ci sono Stati che non vogliono chiudere le centrali a carbone, come India e Cina che, nel frattempo, fa incetta di gas e petrolio a prezzi fuori mercato. Paesi che oggi vedono nell’olio nero l’unica possibilità di uscire da gravi crisi economiche, come il Venezuela e altri per i quali il gas non è solo fonte di energia, ma anche strumento politico. È il caso della Russia di Putin. E poi ci sono potenze che cercano di influenzare i giudizi scientifici sulla cattura e lo stoccaggio di CO2. D’altronde anche l’Arabia Saudita punta su cattura e stoccaggio di anidride carbonica, oltre che sull’idrogeno blu (quindi sul gas), mentre promette per il 2050 emissioni nette zero. Che non significa zero emissioni, ma saldo zero tra emissioni e cattura di CO2. Per farsi un’idea di ‘chi rema contro cosa’ e quali sono i Paesi che formano lo zoccolo duro con cui negoziare prima al G20, e poi alla COP 26, serve capire da quali fonti energetiche dipendono e quali sono gli interessi in gioco. Basta pensare ai petro-Stati, la cui economia è basata sull’estrazione e sull’esportazione di petrolio o gas naturale. Toccherà, dunque, convincere le economie dove le lobby hanno maggior peso e, prioritariamente, i Paesi che inquinano di più.
I RITARDATARI – Convincerli, intanto, a porsi obiettivi più ambiziosi, senza aspettare tre decenni. Significa presentare Ndc (contributi determinati nazionali) aggiornati e allineati all’obiettivo di 1,5°. Il recente Climate Transparency Report sull’azione per il clima dei Paesi del G20 (che rappresentano l’80% delle emissioni globali di gas serra), seguendo il metodo di valutazione internazionale CAT, classifica come ‘altamente insufficienti’ quelli di Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, India, Indonesia, Messico e Corea del Sud. L’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) dice che, per contenere l’aumento di temperatura entro 1,5°, occorre ridurre le emissioni del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010, per poi raggiungere le emissioni zero entro il 2050.
COSA C’È DIETRO I TARGET – Nell’ambito del G20, India, Messico e Turchia non hanno assunto impegni al 2050, come ha fatto una dozzina di Paesi (inclusi Ue, Usa e Giappone). Cina (primo inquinatore al mondo, seguita da Stati Uniti e India), Indonesia, Russia e Arabia Saudita hanno promesso la neutralità climatica (con il recupero di Co2) al 2060. “Anche tra chi ha annunciato le emissioni nette zero entro metà secolo, però, qualche problema si pone” spiega a ilfattoquotidiano.it Luca Iacoboni, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace. “L’Australia ha da poco promesso di raggiungere l’obiettivo al 2050 – ricorda – ma il primo ministro Scott Morrison, da sempre negazionista, ha sottolineato che il governo non fisserà target ambiziosi al 2030, rimanendo sul taglio delle emissioni del 26% rispetto al 2005”. La Russia, che però punta al 2060, non ha fornito dettagli su come arrivare a questo traguardo. Ancora attesi, invece, i piani d’azione di India, Messico, Brasile, Arabia Saudita e Indonesia.
CATTURA, STOCCAGGIO E ALTRI RIMEDI – E poi ci sono le scorciatoie, dalla definizione dei meccanismi in base ai quali i Paesi possono ‘scambiarsi’ le riduzioni di gas climalteranti alle tecnologie, come la CCS (Cattura e stoccaggio di carbonio) che consentirebbero di inquinare oggi per poi catturare l’anidride carbonica in seguito, sponsorizzate dalle compagnie dell’oil&gas di tutto il mondo. Un’inchiesta di Unearthed, il team di giornalismo investigativo di Greenpeace Uk, ha rivelato come Australia, Arabia Saudita, Iran, l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) e Giappone stiano cercando di annacquare le bozze del prossimo rapporto Ipcc anche su questo tema. Nonostante la posizione del Global CCS Institute, secondo cui ad oggi solo una centrale elettrica, la canadese Boundary Dam, cattura con successo parte delle sue emissioni di carbonio: non è stato raggiunto l’obiettivo del 90% e ora si punta al 65%. Dietro i ritardi e le pressioni, ci sono le ‘dipendenze’ e gli interessi economici in gioco, settore per settore.
IL CARBONE – Nel G20, tra i mix energetici più dominati dalle fonti fossili ci sono quelli di Arabia Saudita (al 100%), Australia (al 90%), Sudafrica (90%), Cina e Russia (entrambe all’88%). Rispetto alla fonte più inquinante, il carbone, la maggiore dipendenza ce l’ha il Sudafrica: il carbone rappresenta il 74% del mix energetico. Da qui arriva oltre il 90% del carbone consumato nel Continente. Poi ci sono Cina (60%), India e Indonesia (al 44%). Non è un caso se Cina e India (dove il 70% della produzione elettrica dipende ancora dal carbone) hanno annunciato sussidi per 15 miliardi di dollari per espandere l’estrazione del carbone. Pechino, che nel momento peggiore sta attraversando la crisi economica più grave degli ultimi decenni “da un lato spinge sulle rinnovabili – spiega Iacoboni – dall’altro continua a costruire centrali (nonostante la promessa di non finanziarne più all’estero)”. Tra l’altro, nelle scorse settimane, con la COP 26 alle porte, Xi Jinping ha dovuto affrontare anche il problema della carenza di energia elettrica. E in Cina, il 63% della produzione di elettricità arriva proprio dalle centrali a carbone di cui, di conseguenza, è stata disposta la ripresa a pieno ritmo per aumentare la produzione. Una crisi vissuta anche in India, dove la Coal India Limited, la compagnia mineraria più grande al mondo, è per tre quarti statale. La dipendenza di un Paese, infatti, si misura anche in termini di interessi economici. I maggiori produttori mondiali dal 2018 al 2021 (dati Energia internazionale dell’Energia) sono Cina, India, Indonesia, Stati Uniti. “E l’Australia – aggiunge Iacoboni – con il 58% dell’elettricità che deriva dal carbone e forti interessi a costruire infrastrutture, visto che è il maggiore esportatore al mondo”. Dati che, secondo l’indagine di Unearthed, un funzionario del governo australiano suggeriva di eliminare dalle bozze del prossimo report dell’Ipcc. Non è un caso se il primo ministro Morrison ha precisato che il piano per le riduzioni “non porterà alla dismissione delle estrazioni”. Anche il Giappone, uno dei principali destinatari delle esportazioni di carbone australiano, sta facendo pressioni contro la chiusura delle centrali.
IL PETROLIO – Nell’ambito del G20, non c’è nessuno al pari dell’Arabia Saudita in termini di incidenza del petrolio nel mix energetico: 62%. In questo caso parliamo anche del maggiore esportatore al mondo. L’inchiesta, infatti, ha rilevato pressioni anche da parte di un consigliere del ministero del Petrolio saudita. Ma alla COP 26 ci saranno (o dovrebbero esserci) i rappresentanti di 197 Paesi e anche fuori dal G20 molti sono quelli che hanno interesse nell’oro nero. La BP Statistical Review of World Energy 2020 stima che circa il 93,5% delle risorse petrolifere accertate si trovino in 14 Paesi. Al primo posto c’è il Venezuela (17,8%), poi Arabia Saudita, Canada, Iran, Iraq, Russia, Kuwait ed Emirati Arabi. Ma i maggiori produttori sono Usa, Russia e Arabia Saudita e quelli che esportano più barili Arabia Saudita, Russia e Iraq. Per avere un’idea di quale sarà il clima in Scozia, si pensi a cosa significhi per i Paesi sudamericani il prezzo alle stelle del petrolio: una speranza di ripresa per Brasile, Argentina e Colombia. Per rimanere in piedi, nonostante le sanzioni Usa, il Venezuela ha già incrementato le esportazioni. Petrolio finito per lo più in Cina.
IL GAS – Se guardiamo al mix energetico, Russia (quarto inquinatore mondiale) e Argentina sono i Paesi dove la quota di gas è più grande (al 54%) ma anche in questo caso la questione è molto più complessa. Sono passati più di dieci anni dalle tensioni tra Russia e Ucraina che bloccò le forniture di Mosca all’Europa. Oggi il mercato europeo non si rifornisce solo da Mosca. I maggiori cinque produttori sono Stati Uniti, Russia, Iran, Qatar (che pure ha annunciato le emissioni nette zero al 2060), Canada e Cina. I principali esportatori sono Russia, Qatar, Norvegia, Stati Uniti, Canada e Australia. Ovviamente parliamo di Stati e non di compagnie. Perché Gazprom, il colosso russo del gas controllato e utilizzato come strumento politico del Cremlino, per esempio, estrae in più Stati. Gli equilibri, di fatto, sono cambiati anche dopo la cosiddetta rivoluzione dello shale gas (gas di scisto) che, tra il 2009 e il 2014, ha portato gli Usa a raddoppiare la produzione domestica di gas e a diventare da importatori a esportatori. Ma il ruolo di Mosca è ancora chiave, come dimostra l’intervento a settembre scorso dell’Agenzia internazionale per l’energia che ha invitato la Russia ad aumentare i flussi di gas verso l’Europa per attenuare la crisi energetica e rallentare la corsa dei prezzi. Un invito scattato dopo le indiscrezioni su rallentamenti alle forniture da parte di Gazprom (smentite da Putin) per dare una ’spinta’ all’entrata in funzione di North Stream 2, il controverso e ormai ultimato gasdotto verso la Germania.