Luigi Einaudi, opinionista sul Corriere della Sera e su The Economist, professore di Scienza delle Finanze all’Università di Torino, sarà ricordato soprattutto come un uomo delle Istituzioni. A dispetto del fatto che gran parte della sua vita sia stata dedicata alla produzione di scritti, teorici, storici e divulgativi, questo piemontese poi trasferitosi nei vigneti di Dogliani, governatore della Banca d’Italia, senatore, ministro e finalmente Presidente della Repubblica, diede il meglio di sé con le sue virtù civili, oggi rarissime. Al di là delle ideologie, egli fu principalmente uomo pratico, incarnazione delle virtù pubbliche italiane, consuetudini oggi quasi estinte, etica dei civil servants che sanno mettere al primo posto, non la propria carriera personale, le proprie convinzioni, ma gli interessi generali, la solidità e il prestigio delle Istituzioni che rappresentano. In questo egli fu un grandissimo, un vero padre della Patria, continuatore di Cavour, Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Luigi Luzzatti, e pochissimi altri esemplari della politica italiana. E vale la pena certamente additarne l’esempio.

Vero fuoriclasse nel suo agire politico, con l’abito dell’economista non fu di pari livello. La sua fama come “paterno” economista di scuola liberale, anche se ormai codificata, faticherebbe a rendergli giustizia. Mentre da opinionista ebbe il buon senso, l’equilibrio e il rifiuto di ogni astratto ideologismo, anticipando l’Einaudi uomo dello Stato, da economista, al contrario, benché chiarissimo nella scrittura, fu certamente virtuoso e a modo suo rigoroso, ma né particolarmente nuovo, né adeguato. Così non può esserci continuità tra l’Einaudi economista e l’Einaudi uomo delle Istituzioni, e comprendere quest’ultimo attraverso le lenti del primo non funziona. Come dovrebbe essere per ogni autentico liberale, è la realtà concreta a indicare la verità teorica e non viceversa. E alla fine anche per Einaudi l’azione politica smentì le teorie sostenute nelle riviste scientifiche, insufficienti a comprendere il mondo in cambiamento dopo la Prima guerra mondiale.

Sempre fedele a uno Stato che pure era passato dalla Monarchia alla Repubblica, Einaudi durante le due guerre, in piena epoca depressiva, non abbandonò la sua idea di rigore economico e finanziario, ritenendo – come alcuni economisti moderni – che la ripresa fosse assolutamente conciliabile con pesanti riduzioni di spesa. Ne Il mio piano non è quello di Keynes (marzo-aprile 1933) contro l’inflazione keynesiana, propose una politica di stabilità monetaria. Sognò un pareggio di bilancio attuato attraverso il taglio delle spese improduttive, l’eliminazione delle bardature all’economia e il freno all’aumento di imposte, che a suo modo di vedere sarebbero un ostacolo per il risparmio e la produttività. Per incrementare la capacità produttiva inutilizzata, Einaudi propose investimenti, non una generica espansione dei consumi.

La crisi a suo modo di vedere era la conseguenza degli eccessivi investimenti del passato (molti scarsamente produttivi) rispetto ai risparmi, e il rimedio avrebbe dovuto essere una ripresa di quel “risparmio mancante”, ottenibile grazie ad alti tassi d’interesse e al contenimento dei consumi. Ma guai a finanziare la spesa pubblica aumentando la circolazione monetaria, “in disavanzo” cioè, cosa che avrebbe provocato effetti puramente inflazionistici.

L’idea di Keynes, al contrario, era che la crisi fosse stata originata da un crollo degli investimenti rispetto ai risparmi, da una quantità di liquidità sottratta alla circolazione, e per superarla sarebbe occorsa una spesa aggiuntiva di lavori pubblici finanziati con prestiti di Stato, se del caso, anche in disavanzo. Erano gli anni in cui – unico tra tutti – Hayek si opponeva al deficit spending, ai bassi interessi e ai bassi prezzi di Keynes, ma erano teorie buone per la blackboard economics, che certamente nel breve sarebbero costate sangue e morti a quei paesi che le avessero adottate.

Il “buco” teorico delle teorie di Hayek come di Einaudi, era quello di non aver capito che solo in un contesto in cui si abbiano già risorse produttive completamente utilizzate (cioè pressoché la piena occupazione), la spesa pubblica si trasforma in aumento dei prezzi. Nei periodi di crisi, quando lavoro e beni-capitali sono inutilizzati o sottoutilizzati, alla crescita dei prezzi segue più facilmente un incremento della produzione, in grado di compensare almeno in parte la spinta inflazionistica. Così Keynes aveva gioco facile a ironizzare: “C’è molta gente che sta cercando di risolvere il problema della disoccupazione con una teoria che si basa sull’assunzione che non ci sia disoccupazione”.

Il tempo avrebbe dimostrato che le ricette illiberali di Keynes sono come la morfina, buona per lenire temporaneamente il dolore, ma dannosa se d’uso prolungato. Sicché con la ripresa successiva alla guerra Einaudi poté tornare di moda, in un’Italia che doveva essere prudente e non spendacciona, per ricostruire. A conferma che, in realtà, l’economia, le decisioni economiche hanno da essere un progressivo, molto flessibile, adattamento di ipotesi e correzioni, finalizzate al bene comune. Perché l’economia è una scienza empirica, molto empirica e cangiante, e questo certamente Keynes lo sapeva, non meno di Einaudi. A dimostrazione che gli errori teorici, se padroneggiati da persone consapevoli, possono trasformarsi in successi politici.

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