Pur nella piena solidarietà a chi manifesta il proprio sdegno per l’evoluzione del quadro generale di questi decenni, in cui si presta omaggio formale alla democrazia egualitaria e – al tempo stesso – si teorizza l’ineluttabilità della tecnocrazia, si professa deferenza verso il principio di inclusione e in Italia assistiamo ormai al fenomeno per cui la metà degli elettori si autoesclude dal diritto di voto, si scommette allegramente su cornucopie democratiche prossime future (e – magari – sulla giornata lavorativa di tre ore, per di più in smartworking) quando si certifica la crescente estinzione dei posti di lavoro decenti, sicché – nonostante la mia personale condivisione del malessere – riterrei più utile passare dall’invettiva al tentativo di capire cosa sta succedendo effettivamente.
Magari, venendo ai fatti di questi giorni, cogliere il senso della manovra economica del governo (secretata agli stessi ministri) che le cheerleader giurano essere una straordinaria operazione di riavvio della crescita, quando in realtà è solo una spudorata distribuzione di sussidi ai “denigratori del Sussidistan”. Al limite, la ragione del perché si è voluto affidare la barra del governo a un algido banchiere, al centro di reiterate operazioni a vantaggio della corporazione finanziaria di appartenenza, ma di cui i pubblici banditori continuano a proclamare le preclare doti taumaturgiche. Dunque, avanzare sul terreno dell’indicibile per spiegare le ragioni del non detto. La dura verità che si ritiene più conveniente che la pubblica opinione continui a ignorare.
Proviamoci prendendola da lontano: nonostante le assicurazioni contrarie, la macchina capitalistica aveva bruciato il motorino d’avviamento già all’inizio degli anni Settanta, quando è apparso all’orizzonte il fantasma della saturazione dei bisogni che sino ad allora avevano garantito l’equilibrio fordista, in cui la domanda sopravanzava l’offerta e non c’era problema a trovare acquirenti per le produzioni di massa: ormai tutti, nelle ricche società occidentali, avevano frigorifero e utilitaria; per cui il mercato tendeva a ridursi al rimpiazzo.
Arrivarono così gli anni Ottanta e con essi la stagione del salvataggio del capitalismo attraverso il marketing, con le sue chiacchiere illusorie sulle personalizzazioni del prodotto (la truffa del consumatore moderno principe). Mentre gli Stati si ritiravano dallo spazio pubblico keynesiano/welfariano e i politici si convincevano che erano solo i privati a garantire la nuova soddisfazione del cliente. Il mito di quelle innovazioni di prodotto che Paul Krugman bolla come “più divertenti che utili”.
Ma poi giunsero gli anni Novanta e l’ostacolo fu ancora più alto. Ormai la crescita del dopoguerra era giunta al capolinea mentre cominciava a ristagnare il gettito fiscale e la disoccupazione iniziava a crescere, riducendo la capacità del soggetto-lavoro di fungere da controparte del comando capitalistico. La soluzione apparente fu trovata nella globalizzazione, che però ha aumentato le opportunità per i proprietari di capitali di evadere la tassazione trasferendo i propri beni da un paese all’altro. Mentre la deregolamentazione e la finanziarizzazione prosciugavano la possibilità dello Stato di sostenere il costo dei servizi pubblici gratuiti, rimandando i cittadini al settore privato a pagamento.
Nel frattempo, la contrazione della base imponibile ha creato una crescente domanda di credito da parte di governi sempre più indebitati. Questo ha determinato l’attuale situazione di dipendenza, da parte dai ceti politici che abitano le stanze del mondo pubblico, dal soggetto immaginario chiamato “mercato”; dietro il quale operano i grandi investitori e il mondo della finanza in genere. Completamente padroni della situazione che si è creata e in grado di imporre le scelte che gli convengono.
Sicché, una titubante classe politica presa in ostaggio deve fare l’indicibile di cui si diceva: attuare le politiche di riduzione del debito attraverso il taglio dei servizi e il dimagrimento della sfera pubblica. Quanto avevano capito perfettamente e virato al ruolo di caporali del consenso i vari Clinton, Schroeder e Blair. Come avrebbe voluto fare il maldestro Matteo Renzi vent’anni dopo i suoi modelli. Nella perdurante convinzione che – come dice il sociologo Wolfgang Streek – “i cittadini perdono a favore degli investitori, i diritti di cittadinanza sono superati dai diritti previsti dai contratti commerciali, gli elettori sono al di sotto dei creditori”.
Insomma, le lamentele per le condizioni comatose in cui versano le istituzioni democratiche dovrebbero partire dalla constatazione che queste sono messe fuori gioco dalla governance finanziaria. E incominciare a porsi la classica domanda: “che fare?”.