Storico parlamentare e nipote dell’ex presidente assassinato il 6 ottobre di 40 anni fa, Mohamed Anwar al-Sadat era tra coloro che avevano deciso di ritirarsi dalla corsa alle Presidenziali del 2018 denunciando "gravi intrusioni nella preparazione della campagna elettorale". Oggi, invece, si dice soddisfatto dei cambiamenti che nota nell'esecutivo, anche in materia di diritti umani oltre che "sotto il profilo economico, infrastrutturale e nella lotta al terrorismo"
A pochi giorni dalla presentazione della candidatura alle Presidenziali egiziane del 2018, Mohamed Anwar al-Sadat, omonimo e nipote dell’ex presidente assassinato il 6 ottobre di 40 anni fa durante la parata per onorare la guerra del Kippur al Cairo, rilasciò questa dichiarazione per giustificare il suo ritiro dalla competizione: “Ci sono state gravi intrusioni nella preparazione della campagna elettorale. Ho criticato la gestione del potere messa in atto dai Fratelli Musulmani (a uccidere suo nonno fu proprio una falange della Fratellanza, ndr), ma adesso l’Egitto con al-Sisi è ben lontano dall’essere uno Stato di diritto”. Ora, quasi quattro anni dopo, parlando a Ilfattoquotidiano.it, al-Sadat mostra un piglio diverso: “Ci sono nodi vitali da risolvere ancora, ma il Paese sta facendo una serie di passi in avanti importanti, sotto il profilo economico, infrastrutturale, sui diritti umani e nella lotta al terrorismo. Insistere col muro contro muro nei confronti del governo non porterebbe a nulla, meglio puntare sul dialogo, un approccio diverso rispetto al passato. Questa è la mia idea politica oggi, in un momento in cui l’Egitto è un Paese che si va stabilizzando. Il vero motivo del ritiro dalle Presidenziali del 2018? Un buon politico deve sapere quando è il momento adatto per fare un passo indietro o in avanti”. Si è fatto cauto e saggio il fondatore e presidente del partito per la Riforma e lo Sviluppo, forte di 15 seggi in Parlamento, e attuale vertice della Commissione Parlamentare egiziana per i Diritti Umani. Al-Sadat, 66 anni, un nonno ‘ingombrante’ ed esperienza politica da vendere, non scappa davanti alle domande affrontate, tuttavia seguendo una linea diversa. Compreso un argomento molto caro all’Italia e agli italiani.
Presidente Sadat, il processo istruito dalle autorità giudiziarie italiane sulla morte di Giulio Regeni è stato interrotto sul nascere e rischia di non arrivare ad alcun risultato, se l’aspettava?
“Ho seguito con molta attenzione le fasi di preparazione del processo, non mi sento però di criticare la scelta della Procura egiziana. I responsabili di quel crimine orrendo vanno messi alla sbarra, ma il problema resta sempre uno: chi?”.
Secondo lei i quattro rinviati a giudizio dall’Italia sono innocenti?
“Non lo so e non spetta a me dirlo, ma seguendo anche le indagini credo che il loro coinvolgimento non sia così evidente. Notificare i provvedimenti a comparire per i 4 imputati del processo italiano non è così automatico”.
Come se lo spiega?
“Nei primi anni dell’indagine è stata fatta molta confusione, abbiamo ascoltato tante storie sul ragazzo italiano. Chi ha detto che lavorava per i servizi britannici, secondo altri era un criminale e via discorrendo. Voci infondate, Giulio era uno studente e un bravo ragazzo”.
Compresa la famosa ‘banda’ sterminata dalla Nsa in quanto considerata, a tutt’oggi, la responsabile dell’omicidio di Regeni dagli 007 del Cairo?
Quella è una ipotesi che non sta in piedi, una bufala colossale. L’unico fatto accertato è che lui è morto purtroppo. Detto questo resto molto fiducioso”.
Per quale motivo?
“Sono convinto che il nuovo corso distensivo messo in atto dal governo, iniziato con la revoca dello stato di emergenza una settimana fa, porterà novità importanti per la soluzione del giallo. Aspettiamo qualche mese”.
Cosa si sente di dire alla famiglia di Regeni?
“Chiedere scusa per non aver ancora accertato i responsabili e riaffermare il loro diritto a chiedere giustizia e verità. Purtroppo la storia egiziana è costellata da episodi irrisolti, stavolta speriamo in un esito diverso”.
Giulio Regeni non c’è più, mentre Patrick Zaki sta lottando contro una carcerazione lunga, durissima e per l’opinione pubblica italiana ingiusta. Secondo lei le accuse nei suoi confronti, addirittura quelle per terrorismo, reggono?
“Non spetta a me dire se gli addebiti nei suoi confronti siano giusti o no. Di una cosa sono abbastanza certo, a Patrick va consentito di tornare alla sua vita e ai suoi studi”.
Lei ritiene che il 7 dicembre si possa arrivare a un’assoluzione?
“Penso che quel giorno sarà decisivo e sarà un giorno felice. Teniamo le dita incrociate e speriamo che Patrick possa trascorrere il Natale assieme la sua famiglia. Con loro e con la fidanzata di Patrick sono in frequente contatto, sarebbe una gioia vederli insieme”.
A proposito di carceri e detenzioni da incubo, il presidente al-Sisi presto inaugurerà un nuovo ed enorme penitenziario nell’area di Wadi al-Natrun seguendo i modelli americani: lo ritiene un provvedimento sensato?
“Forse non è una priorità, ma proprio io nei primi anni duemila chiedevo condizioni migliori per i detenuti e chi, come me, si occupava di diritti umani era fortemente preoccupato già allora. Il governo oltre a Wadi al-Natrun ha in progetto altri tre penitenziari nuovi di zecca e di abbattere i più vecchi e malandati, tra cui il complesso di Tora”.
E il progetto della nuova capitale amministrativa, sempre una buona idea?
“Non ero favorevole all’inizio, però effettivamente ha creato tanto lavoro. Non c’è solo la Nuova Capitale, è in corso uno sviluppo nelle aree rurali, abbattendo gli slums nei vari governatorati. Insomma ridare dignità abitativa e sociale a un’ampia fascia di popolazione”.
In chiusura, tornando al tema dei diritti umani, il 1° novembre partono i processi a detenuti per reati di coscienza e attivisti come Alaa Abdel Fattah, Mohamed al-Bakr e Mohamed ‘Oxigen’. Il 2 toccherà a Hossam Baghat. Cosa si aspetta?
“Sono grandi amici e persone straordinarie, li porto nel mio cuore, ma come loro ce ne sono a centinaia nelle stesse condizioni. Il prossimo step che il governo dovrà applicare è fermare le rotazioni dei casi in attesa di giudizio e le detenzioni rinnovate. Stanno giungendo segnali nuovi dallo Stato, ci vuole ancora tempo, ma il trend è favorevole. Basta fare la guerra, non siamo più nel 2013, ora c’è un governo serio, affidabile che sono convinto opererà per il bene di tutti. Nessuno nega o dimentica le violenze di quegli anni, la censura contro i mezzi di informazione, tanti sono ancora i punti oscuri e i problemi da risolvere. Dico solo di essere pazienti e puntare a una strategia condivisa diretta verso la pace e la prosperità. Ripeto, diamo tempo alcuni mesi e vediamo cosa accadrà in Egitto”.