Negli ultimi dieci anni Cooperazione Finanza Impresa ha finanziato 85 esperienze, per un totale di 2.238 addetti che hanno rilevato la loro azienda: solo 13 hanno chiuse. Le ultime due leggi di Bilancio hanno dato una spinta perché stabiliscono la non imponibilità della Naspi e del Tfr chiesti dai lavoratori in casi come questi. Il settore di attività prevalente è la manifattura, ma anche logistica e servizi. La dimensione ideale è quella delle pmi non più di 250 addetti e 50 milioni di fatturato
Gianetti Ruote, storica fabbrica di ruote d’acciaio attiva in provincia di Monza e Brianza: 152 lavoratori licenziati con una mail. Timken, bresciana, settore automotive: a luglio comunica lo stop dell’attività. Gkn, multinazionale britannica: chiude lo stabilimento di Campi Bisenzio e annuncia che lascerà a casa tutti i 422 dipendenti (procedura poi revocata dal tribunale del Lavoro). Riello: addio all’Abruzzo per delocalizzare in Polonia. Sono solo alcuni dei casi recenti di “ristrutturazioni” sulla pelle dei lavoratori, spesso senza reale fondamento economico. Mentre il decreto anti delocalizzazioni annunciato in agosto resta ostaggio delle divisioni interne al governo, una potenziale soluzione forse può venire “dal basso”. Si chiama Workers Buyout (Wbo): i dipendenti di un’azienda in crisi rilevano un ramo fallito dell’attività in cui lavorano e ne diventano i gestori, dando origine a una cooperativa. Lo fanno investendo la Naspi, cioè l’indennità di disoccupazione: grazie alla legge Marcora del 1985 possono chiedere che venga erogata tutta in una volta invece che ogni mese per il periodo spettante a ciascun lavoratore in base all’anzianità.
Negli ultimi dieci anni Cooperazione Finanza Impresa, società partecipata da Mise, Invitalia e dai fondi mutualistici dell’universo cooperativo, ha finanziato 85 esperienze di questo genere, per un totale di 2.238 addetti. Solo 13 hanno chiuso, le altre resistono. E sono sopravvissute anche alla pandemia. Secondo il Forum Disuguaglianze Diversità, che riunisce otto organizzazioni di cittadinanza attiva, in molti casi potrebbero diventare la strada maestra per evitare di disperdere il patrimonio di un’azienda che intende chiudere e i posti di lavoro. Le ultime due leggi di Bilancio hanno dato una spinta in questa direzione perché stabiliscono la non imponibilità della Naspi e del Tfr chiesti dai lavoratori per rilevare un’azienda in crisi. E la prima manovra del governo Draghi riconosce alle cooperative di lavoratori, per massimo 24 mesi, l’esonero dal versamento del 100% dei contributi (con l’esclusione di quelli dovuti all’Inail) fino a 6.000 euro su base annua. Un’ulteriore manifestazione di fiducia nei confronti di queste imprese: “L’abbiamo voluto come parte integrante della riforma degli ammortizzatori sociali”, ha spiegato il ministro del Lavoro Andrea Orlando.
LE STORIE – Wbo Italcables Società Cooperativa esiste dall’aprile del 2015. Nasce quando gli attuali 51 soci – ed ex dipendenti di Italcables spa – decidono di rilevare lo stabilimento industriale in liquidazione a Caivano, specializzato nella produzione di cavi di acciaio per il cemento armato. L’idea parte dagli operai stessi quando nel 2013 si ferma la produzione e l’azienda rischia il fallimento. Creano la cooperativa e comprano l’azienda grazie alla Naspi: si salvano così. Poi c’è ScreenSud, a Napoli, composta da ex lavoratori della Lafer, un’azienda specializzata nella produzione di reti in acciaio. Nel 2012 è andata in liquidazione. Con il sostegno di Cooperazione Finanza Impresa, Coopfond e il FondoSviluppo – i fondi mutualistici di Legacoop e Confcooperative – rilevano la fabbrica fallita e creano una cooperativa costituita da dodici lavoratori. Nel 2015 acquistano i macchinari, si trasferiscono in un nuovo stabile e ripartono. Rimaflow invece prende origine da Maflow, storica fabbrica nel settore automotive di Trezzano Sul Naviglio nel Milanese che nel 2009 va in insolvenza e viene posta sotto commissariamento. Dopo un anno e mezzo passa a una proprietà polacca e 240 dipendenti rimangono in Cigs. Nel 2012 prende corpo fra gli operai l’idea di avviare una cooperativa e nel 2013 diventa ufficiale. Gli ex dipendenti si occupano di distribuzione e realizzazione di prodotti alimentari. In sede operano inoltre alcune di botteghe artigiane attive fra gli altri nel campo della falegnameria, carpenteria metallica, tappezzeria. Più recente il caso di Ceramiche Noi, società cooperativa nata dalle ceneri di Ceramisia con sede a Città di Castello, non lontano da Perugia. Dopo che i vertici decidono di delocalizzare la produzione in Armenia, il personale resta senza lavoro. Marco Brozzi, all’epoca direttore, sceglie la strada del Wbo dopo un confronto con Legacoop Umbria. Investono 180mila euro fra Tfr e Naspi e avviano una cooperativa. Nel 2020, a un anno dall’apertura, inaugurano il loro primo punto vendita. In due anni raddoppiano il numero dei lavoratori, passati da 11 a 22: è stato inoltre comunicato ai dipendenti il passaggio del contratto da tempo determinato a indeterminato.
IL PERCORSO – Ma a quali condizioni un’esperienza del genere ha chance di successo? “Non tutte le crisi aziendali si prestano alla trasformazione in Wbo. La dimensione ideale è quella delle piccole medie imprese con non più di 250 addetti e 50 milioni di euro di fatturato”, spiega Alessandro Viola, responsabile istruttoria e sviluppo di Cfi, Cooperazione Finanza Impresa, investitore istituzionale in capitale di rischio che dal 1986 sostiene le cooperative di lavoro e sociali. Oltre a finanziare i progetti, aiuta i lavoratori nella valutazione dei potenziali rischi e benefici. “Vanno considerati alcuni fattori. Prima di tutto, capire il perché del fallimento dell’impresa stessa”, prosegue Viola. “Se non ha retto per problemi legati alla gestione della proprietà o per fattori straordinari c’è una maggiore possibilità che il Wbo abbia successo. Se invece si registra una crisi di mercato o di prodotto significa che la partenza sarà in salita”. Fondamentali alcuni fattori: discontinuità con la precedente proprietà e management, almeno una leadership all’interno del gruppo, una forte motivazione dei lavoratori coinvolti. Una eventuale mancanza di competenze può essere colmata con personale esterno e percorsi formativi. C’è poi da verificare la ragionevolezza del piano industriale, attraverso il quale annullare o mitigare le cause responsabili della precedente crisi.
Il rischio di insuccesso ovviamente c’è, ma “in verità i casi sono pochi, considerando che il wbo è pur sempre una start up. Negli ultimi 10 anni solo 13 su 85. A volte è mancato il cambio di mentalità, da operai a imprenditori. È cruciale investire tempo nel percorso cooperativo e nella dimensione del gruppo che collabora e condivide”, prosegue Viola. Detto questo, i 72 wbo ancora operativi sviluppano un fatturato consolidato superiore a 300 milioni di euro, con un rilevante impatto occupazionale ed un significativo ritorno per lo Stato, sia economico, sia sociale”. E ora, in fase post pandemica? “Il numero di wbo realizzati nel primo semestre 2021 è in crescita rispetto al 2020, ce lo aspettavamo. Progetti che probabilmente beneficeranno del contesto di crescita macro economica ipotizzato nei prossimi anni”.
LE TRE LINEE D’INTERVENTO – Secondo Forum Disuguaglianze Diversità, il fenomeno dei Wbo è un’occasione di crescita senza pari per i lavoratori, perché “trasforma gli operai in imprenditori. Un carico di responsabilità in più, ma anche maggiori opportunità”. Ci sono però ancora alcuni ostacoli che frenano il meccanismo. Forum DD, in collaborazione con Cfi e Legacoop, sta lavorando per cercare di sciogliere i nodi dove possibile. Già nel 2019 aveva proposto di intervenire incentivando la formazione manageriale degli operai e agevolandoli da un punto di vista fiscale. “Siamo attivi su tre linee”, spiegano. “Prima di tutto, vogliamo siano attuate le norme a favore dei Wbo inserite nella Legge di Bilancio 2020 – 2021. È previsto infatti che Naspi e Tfr non siano più soggette all’Irpef“. La seconda area di intervento riguarda la messa a sistema delle politiche attive del lavoro: “E qui rientra il capitolo formazione dei dipendenti che si imbarcano nell’esperienza di Wbo, e si ritrovano a dover mettere in pratica da subito competenze manageriali e gestionali”. La terza, infine, è la comunicazione: “Il racconto di questo fenomeno, che costituisce una soluzione spesso poco conosciuta. È giusto che il pubblico e i soggetti implicati nel mondo del lavoro la conoscano”. In quest’ultimo senso qualcosa è già stato fatto: la Legge di Bilancio 2020 prevede che il Cfi partecipi ai tavoli di crisi: possono anticipare l’opzione Workers Buyout come potenziale metodo di intervento, informando gli operai stessi della presenza di questa opportunità. Anche questa possibilità era fra le proposte avanzate da Forum DD due anni fa.
I NUMERI – Legacoop ha tracciato la storia del fenomeno fin dall’inizio. Dall’entrata in vigore della Legge Marcora (27 febbraio 1985) sono state identificate 323 imprese recuperate dai lavoratori in forma cooperativa, coinvolgendo 10.408 dipendenti. Circa il 75% delle operazioni di recupero condotte a partire dal 2003 (anno di entrata in vigore della riforma della Legge Marcora, datata 2001) sono tuttora attive. Circa il 70% dei Wbo si sono originati tra le regioni del Centro e del Nord-Est del Paese, con una netta prevalenza delle regioni centrali (46%). Solamente l’11% complessivo è invece distribuito tra il Sud e le Isole. La grande maggioranza delle imprese recuperate, si legge nel report Legacoop, sono attive nell’industria manifatturiera (il 79,6%). Molto presenti anche i servizi, in particolare la logistica e i trasporti, oltre che quelli legati all’industria cinematografica, di informazione e comunicazione. Le operazioni di recupero delle imprese da parte dei lavoratori, ad oggi, contano su un capitale sociale di 63 milioni e un patrimonio netto di 113 milioni. Sviluppano nel complesso 490 milioni di euro generando un utile di 1,7 milioni di euro.