Cultura

Un buco sotto terra per la sopravvivenza: la storia di Bernard e degli altri 45 nel bunker della villa. Canzoni, giochi, amori, la paura di essere scoperti

Anticipazione di "Il ragazzo del bunker", il nuovo libro di Antonio Armano, scrittore e giornalista, collaboratore delle testate del Fatto Quotidiano, che racconta - attraverso un diario di un sopravvissuto allora 15enne - la vicenda di un gruppo di ebrei che per scampare ai nazisti si nascosero in un rifugio collegato alla rete elettrica e dotato di cucina

di F. Q.

Diciassette mesi nascosti sottoterra: è l’avventura di quarantasei ebrei nel diario di un ragazzo che sfuggì ai nazisti il centro di Il ragazzo del bunker (edizioni Piemme, 400 pagg., 18,90 euro), l’ultimo libro di Antonio Armano. Armano, giornalista e scrittore, ha viaggiato a lungo nei paesi dell’Est e studiato lingue slave. Ha scritto per diverse testate e collabora attualmente con Il Sole 24 Ore, il Fatto Quotidiano e FqMillennium, il mensile diretto da Peter Gomez. Nel 2009, per il ventesimo anniversario del crollo del Muro di Berlino, ha realizzato un reportage tra i resti della Cortina di ferro, da Travemünde a Trieste, pubblicato dal settimanale polacco Polytika. Nel 2014 è stato finalista al Premio Viareggio con Maledizioni, un libro inchiesta sulla censura letteraria, e nel 2019 ha vinto il Premio Parise per I barconi dell’asfalto, reportage sulle rotte delle badanti dall’Ucraina all’Italia pubblicato da FqMillennium.

La storia di Il ragazzo del bunker si sviluppa dai primi mesi del 1943 nel ghetto di Drohobycz, una cittadina polacca ai piedi dei Carpazi, ora in Ucraina. Gli ebrei scampati a due anni di occupazione nazista sapevano di essere condannati e cercarono di nascondersi in attesa dell’Armata rossa. Alcuni di loro, raccolti attorno alle famiglie Mayer e Schwartz, spesero le ultime risorse per costruire un bunker sotto una villa. Sedici persone, poi diventate quarantasei, si seppellirono in un buco di pochi metri, ma collegato alla rete elettrica e dotato di cucina. In quella comunità clandestina si pregava e si faceva l’amore, si cantavano canzoni yiddish, si giocava a scacchi e si litigava, sospesi tra il dolore per le atrocità vissute e il terrore di essere scoperti. Le notizie dal fronte arrivavano dalla radio, il cibo veniva fornito da un giovane ucraino ambizioso che nel bunker aveva due amanti. Nel racconto della loro lotta per la sopravvivenza, ricostruita grazie al diario e alla testimonianza di Bernard Mayer, allora quindicenne, Antonio Armano fa rivivere un luogo distrutto per sempre prima dalla Shoah e poi dal comunismo. Un mondo di mistici chassidim, affaristi senza scrupoli, eroi anonimi, personaggi romanzeschi quali Aron Szapiro, il geniale artefice del rifugio, soprannominato Al Capone per la somiglianza con il gangster.

Ilfattoquotidiano.it pubblica qui un’anticipazione del libro.

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Finalmente il bunker smise di essere un forno. L’aria che arrivava attraverso lo sfiato della stufa e la toilette era fresca e l’acqua era abbondante. Le cisterne erano piene e a volte straripavano. Una notte verso le dieci, quando cioè per gli abitanti del bunker era mattina, la piccola Muszka Badjan fece un incubo e le urla della bambina svegliarono tutti. Il campanello suonò due volte, come accadeva spesso. Questo significava che Ivan Bur stava scendendo e andava tutto bene. Ma l’ucraino strisciò dentro con una faccia preoccupata e senza il solito sorriso. Disse che aveva un problema. In casa c’erano cinque persone. Sapevano del bunker e insistevano per entrare.

In situazioni del genere, vale a dire se qualcuno sapeva dove ti nascondevi, non potevi rifiutarti di farlo entrare. A maggior ragione se le cinque persone facevano parte della famiglia Szapiro e venivano dal bunker nel bosco. Erano due dei fratelli di Aron, Yoske e Szymon, due figli di Szymon, ed Elie, un ragazzo di vent’anni. Tutt’e cinque sedevano nell’angolo buio della cantina. Erano scalzi e avevano pantaloni e maglia strappati, ma soprattutto puzzavano terribilmente. Prima che potessero raccontare qualcosa, gli furono portati secchi d’acqua e della biancheria pulita. Si lavarono e si cambiarono. Se fossero arrivati prima delle piogge avrebbero reso l’aria irrespirabile. Ivan ricevette rassicurazioni sull’appartenenza dei cinque al bunker degli Szapiro e si rassegnò a farli entrare, anche se non avevano un soldo bucato in tasca.

Yoske e Szymon Szapiro si sedettero e finalmente trovarono la forza di raccontare. Szymon, il più grande, aveva una quarantina d’anni e un corpo muscoloso come quello del fratello Aron. Non appena iniziava a parlare, scoppiava subito in lacrime. Dopo qualche minuto riuscì a raccontare quello che era successo, lottando contro il pianto.

La situazione nel bunker del bosco era stata molto difficile. Procurarsi il cibo era un problema. Alla fine la moglie del guardaboschi Zuk si era presa pietà per loro e le cose andavano un po’ meglio ma era sempre molto dura. Il marito non voleva dare una mano. La moglie aveva accettato di rifornire il bunker di grano, orzo, pane e patate. Il marito aveva paura e la sgridava. Dovevano andare da lei quando il guardaboschi non c’era per prendere il cibo senza che lo sapesse. Mangiavano di notte e dormivamo di giorno. Finché non scendeva l’oscurità tra gli alberi nessuno si avventurava fuori dal bunker. All’interno c’era sempre buio, anche se un po’ di luce filtrava attraverso la copertura di ramoscelli e arbusti. Poi era scoppiato un focolaio di dissenteria. Molti si erano presi la diarrea e dovevano usare continuamente il grande buco scavato nel bunker come toilette davanti a tutti. Quando era caduta la prima neve bisognava stare molto attenti a uscire, in modo da non lasciare impronte e tracce varie.

Tra quelli che si erano presi la dissenteria, e pure in forma molto forte, c’era Stern. Stern era un uomo colto e sensibile. Troppo imbarazzato per usare il buco così spesso, usciva a scaricarsi nella neve lasciando impronte che portavano diritto al bunker. Szapiro cercava di fermarlo, ma nessuno poteva trattenerlo quando la pancia lo faceva piegare in due. Erano tutti malati, sfiniti e impauriti e senza la forza di fare niente. Alcuni contadini avevano notato le impronte di Stern. Tre giorni prima dell’arrivo in via Borisławska dei cinque, alla mattina presto la polizia ucraina e tedesca aveva circondato il bunker. Si sentivano spari ovunque. Poi si era fatto silenzio e gli spari erano finiti. Nessuno si muoveva, ma Yoshua Shönfeld, il cugino di Amalia, voleva sapere che cosa succedeva. Aveva alzato i rami per dare un’occhiata. Era caduto all’indietro nel bunker con una pallottola in testa. Morto sul colpo. Aron Szapiro era troppo intelligente e svelto per non capire e reagire. Pensando con rapidità, aveva detto a Yoske, Szymon e ai figli di Szymon di entrare nel buco della merda.

A quel punto Szymon guardò Elie Heilig e disse: «Anche Elie Heilig si è buttato dentro per salvarsi la vita e così non c’era posto per mio figlio più grande. Ha preso la vita di mio figlio. Stavamo uno sull’altro. Aron ci ha coperti con tronchi e rami e poi ha aperto il bunker. Tutti e quindici, inclusa sua moglie e suo figlio, sono usciti».

Aron Szapiro era uscito subito dopo Yoshua Shönfeld tentando di fuggire, ma era stato raggiunto anche lui da una pallottola. Può darsi che avesse scelto quella morte per non essere catturato e interrogato: di sicuro la polizia doveva sapere della sua attività di costruttore di bunker e gli dava la caccia da tempo. Secondo Amalia i tedeschi erano rimasti talmente colpiti dalla scoperta del suo bunker al ghetto che volevano prenderlo vivo e conoscere l’uomo che li aveva fregati con tanta astuzia ingegneristica. Tutti gli altri occupanti del buco nel bosco, cioè venti meno Aron, Yoshua e i cinque nascosti nella merda, erano stati portati via. Szapiro non aveva neanche cercato di salvare la moglie Malka e il bambino perché sapeva che avrebbe pianto nel buco condannando tutti gli altri.

I poliziotti si erano calati dentro il bunker e avevano rimosso tutte le poche cose, comprese le pentole. Avevano passato un’intera giornata andando e venendo con altri contadini per indagare sulla costruzione del rifugio. Per tutto il tempo i cinque erano rimasti immobili nella merda e in ascolto. Sentivano due contadini dire che i tedeschi avevano sparato alla Zuk, la moglie del guardaboschi. In qualche modo erano riusciti a risalire a lei dalle pentole. L’avevano trascinata urlante fuori dalla baita e le avevano sparato per aver dato da mangiare agli ebrei. Ma non avevano toccato il marito. Zuk insisteva a dire che non aveva niente a che fare con gli ebrei e gli avevano creduto.

Solo al calare della notte, quando intorno non si muoveva più una foglia, Yoske, Szymon e gli altri erano usciti. Il bosco era buio e gelido dopo la strage. Erano bagnati, laceri e coperti di escrementi ma non avevano vestiti per cambiarsi. Per tenersi caldo, stavano uno addosso all’altro. Si erano messi in cammino, ma all’alba si erano nascosti a riposare e al tramonto avevano ripreso la discesa verso Drohobycz. Raggiunta la casa di Ivan si erano nascosti nel retro, dietro al pozzo asciutto del quale avevano sentito parlare da Aron Szapiro. Conoscevano la casa dai suoi racconti. Poi avevano bussato alla porta. Ivan era stato molto sorpreso di vederli. Dopo avere ascoltato la storia tutti si sono stretti per trovare un posto ai cinque nuovi arrivati. Contando anche loro nel bunker, c’erano trentacinque persone ed erano tutte scosse e abbattute per l’uccisione di Aron Al Capone Szapiro e la storia straziante del posto del nipote preso da Elie Heilig.

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Immagine in alto | Foto d’archivio del Ghetto di Varsavia

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