Gli attivisti in difesa della foresta amazzonica in questi giorni hanno esortato i delegati della Cop26 a non fidarsi delle promesse del governo brasiliano di Jair Bolsonaro e, nel frattempo, oltre cento leader mondiali (tra presenti e assenti alla Cop26) firmavano un impegno a porre fine alla deforestazione entro il 2030, con 12 miliardi di dollari. Più i 7 miliardi promessi da società private. Anche perché si scrive foreste, si legge pozzi di carbonio e assorbimento di CO2, con tutto quello che comporta in termini di compensazioni per aziende e Stati. Alcuni dei fondi andranno ai paesi in via di sviluppo per ripristinare i terreni danneggiati, affrontare la piaga degli incendi boschivi e sostenere le comunità indigene (1,7 miliardi, ndr). Ma tra i firmatari della ‘Dichiarazione di Glasgow sulle foreste e la terra’, che coprono circa l’85% delle foreste mondiali, il presidente cinese Xi Jinping, il premier russo Vladimir Putin e persino Jair Bolsonaro, su cui pende una denuncia per genocidio davanti al Tribunale penale internazionale dell’Aja (Tpi), presentata proprio dai rappresentanti di popolazioni indigene brasiliane e associazioni a difesa dei diritti umani. Ed è la terza che arriva al Tpi e al centro della quale c’è sempre lo sfruttamento delle risorse in Amazzonia. E allora non stupisce che la dichiarazione, quantomeno, divida. Così, se Fran Price, responsabile foreste del WWF Internazionale definisce l’impegno “notevole”, pur spiegando “che ora dovrà essere adottato con urgenza, insieme alle azioni politiche necessarie per affrontare i fattori che causano la deforestazione”, molto più critica Carolina Pasquali, direttore esecutivo di Greenpeace Brasile. I problemi sono diversi: dai tempi agli strumenti concreti messi in campo per raggiungere l’obiettivo. Che, da primo accordo condiviso messo sul piatto della Cop finora rischia di diventare il simbolo del ‘bla, bla, bla’ politico.
GREENPEACE: “BOLSONARO A SUO AGIO” – “C’è un’ottima ragione per cui Bolsonaro si è sentito a suo agio nel firmare questo nuovo accordo. Permette un altro decennio di distruzione delle foreste (che coprono il 60% del Brasile, ndr) e non è vincolante”. Nel frattempo l’Amazzonia è già sull’orlo del baratro “e non può sopravvivere ad altri anni di deforestazione. I popoli indigeni chiedono che l’80% dell’Amazzonia sia protetto entro il 2025 e hanno ragione, è quello che serve”. Il nuovo accordo, ricorda Greenpeace, sostituisce la Dichiarazione di New York sulle foreste del 2014 (allora non firmata dal Brasile), che includeva l’impegno dei governi a dimezzare la perdita di foreste entro il 2020 e sostenere le aziende per porre fine alla deforestazione nelle catene di approvvigionamento entro il 2020. Eppure il tasso di perdita di foreste naturali è aumentato drasticamente negli ultimi anni. Dati i precedenti, l’organizzazione crede ci siano poche possibilità che Bolsonaro si attenga a questo accordo volontario. A maggior ragione perché “sta attualmente cercando di far passare un pacchetto legislativo che accelererebbe la perdita di foreste”. Bolsonaro aveva già promesso lo stop alla deforestazione illegale entro il 2030, per poi tagliare i fondi alle agenzie per la protezione ambientale.
QUANTO TEMPO HA L’AMAZZONIA – La questione del tempo è fondamentale. E ci sono vari studi (che giungono a diverse conclusioni) su quanto tempo ha a disposizione l’Amazzonia prima di collassare. Nel 2019, Bolsonaro ha licenziato il direttore dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale, che è responsabile del monitoraggio satellitare in Amazzonia, definendo “bugie” i tassi di deforestazione registrati e comunicati dall’istituto. Secondo una ricerca pubblicata a inizio 2021 sulla rivista Environment: Science and Policy for Sustainable Development e condotta dal professor Robert Toovey Walker dell’Università della Florida, se non si cambia rotta entro il 2064 l’Amazzonia, dove già oggi in alcune aree si emette più di CO2 di quanta non venga catturata) diventerà una savana aperta, dominata da erbe e arbusti. È chiaro che in questo contesto, altri nove anni diventano fondamentali. E non solo per l’Amazzonia.
I NUOVI FONDI PER LE AREE BOSCHIVE – Sono stati annunciati nuovi fondi per i Paesi con aree boschive significative, tra cui Brasile e bacino del Congo al quale andranno 1,5 miliardi di dollari per proteggere la seconda foresta pluviale tropicale più grande del mondo. Qui, dove la Total fa crescere delle piante di acacia per creare una foresta da 40mila ettari sugli altopiani Batéké e assorbire in 20 anni dieci milioni di tonnellate di CO2, aumentando però la produzione di combustibili fossili del 15% entro il 2030. Secondo Anna Jones, responsabile delle foreste di Greenpeace nel Regno Unito “le somme anticipate sono una piccola frazione di ciò che è necessario per proteggere la natura a livello globale e, comunque, i fondi impegnati dai governi nell’ambito del Global Forest Finance Pledge sembrano provenire dai loro budget per gli aiuti, quindi non è chiaro se si tratti effettivamente di nuova liquidità. Né ci sono garanzie – aggiunge – che le donazioni del settore privato non vengano semplicemente utilizzate come compensazione per la riduzione diretta delle emissioni”. Una moratoria sulle nuove concessioni di disboscamento è stata revocata dal governo della Repubblica democratica del Condo a luglio e gli attivisti temono che l’offerta di nuovi fondi non sia subordinata al ripristino del divieto. Si parla di un’area di foresta tropicale grande quanto la Francia.
IL COMMERCIO E LA TRASPARENZA – I governi di 28 paesi si sono impegnati anche sul fronte del commercio globale di cibo e altri prodotti agricoli come l’olio di palma, la soia e il cacao, le cui piantagioni sono causa di deforestazione. Ma non si indica alcuna azione, spiega Carolina Pasquali “per ridurre la domanda di carne e prodotti lattiero-caseari industriali, un’industria che sta causando la distruzione dell’ecosistema attraverso la produzione di bestiame e l’uso della soia per alimentare gli animali”. E la colpa è anche dell’Europa. Ma questo accade un po’ ovunque e a causa della produzione di diversi prodotti. Così l’accordo dovrà fare i conti con le pecche del commercio globale. Già oggi diverse potenze stanno cercando di dotarsi di una legislazione che impedisca il commercio nei propri confini di prodotti che arrivano da aree devastate, da incendi o disboscamento. Ma non è così semplice e spesso si tratta di prodotti difficili da tracciare, come dimostra un’indagine dell’Environmental Investigation Agency (Eia), che ha rilevato come gli Stati Uniti abbiano importato notevoli quantità di legname russo proveniente da zone protette (circa l’80% del legname prodotto nell’est della Russia è prodotto illegalmente) attraverso un’azienda con sede in Cina.