Ha detto Alan Moore che “nella fiction, nell’arte e nella scrittura è importante che, anche se si tratta di aree di completa fantasia, ci sia una risonanza emotiva. È importante che una storia suoni vera a livello umano, anche se non è mai accaduta”.
La sua lezione è ben nota a tutti i fan della sua arte – e quindi principalmente agli appassionati di fumetto – ma è facilmente applicabile anche a campi della narrazione che non vivono di sola carta. Con Freaks Out, Gabriele Mainetti ha trovato il modo di farla sua una seconda volta, dopo il successo raggiunto dal suo lavoro precedente, Lo chiamavano Jeeg Robot, tanto più che c’è anche tanto fumetto tra le ispirazioni principali del suo cinema. Si tratta appunto di una storia mai accaduta ma narrata con profondo rispetto di tutto ciò che di emotivo scaturisce dall’umana imperfezione.
Il circo Mezza Piotta è una versione romanesca del circo Barnum, di cui fanno parte Matilde, Fulvio, Cencio e Mario (Aurora Giovinazzo, Claudio Santamaria, Pietro Castellitto e Giancarlo Martini), ognuno con poteri straordinari e condizioni fisiche peculiari che li costringono a una vita di isolamento ai margini della società. I quattro, durante l’occupazione nazista di Roma, si ritrovano “orfani” del proprio padre fondatore Israel (Giorgio Tirabassi, straordinario e commovente anche in un ruolo più risicato), rastrellato dalle Ss. Indecisa sul da farsi, la compagine di ‘freaks’ prova ad arruolarsi nel roboante e rinomato circo nazista Zirkus Berlin, situato all’interno del Forte Bravetta e gestito dal folle Franz (Franz Rogowski). Matilde invece preferisce andare alla ricerca dello scomparso Israel e si imbatte in uno squadrone di partigiani resi deformi dagli orrori della guerra, e capeggiati dal Gobbo (un irripetibile Max Mazzotta – guai a definirlo caratterista – volto brechtiano di cui i nostri grandi schermi sentono troppo spesso la mancanza).
Il gruppo è destinato a ricongiungersi a causa delle folli macchinazioni di Franz, che si scopre essere già da tempo sulle loro tracce. Questi è un pianista di talento ma possiede sei dita per mano, e ciò gli impedisce di essere preso in considerazione per ruoli militari di rilevanza. Ha inoltre visioni dal futuro che lo rendono consapevole della futura caduta del Reich e decide di servirsi delle capacità di altri “freak” come lui per impedire la sconfitta di Hitler e alterare così il corso della storia.
Mainetti riesce a cucire insieme, con mano divertita, un film atipico e composito, ricco di elementi riconducibili al fantasy, al cinema italiano del secondo dopoguerra e ai cinecomic d’oltreoceano. Il suo citazionismo è denso ma intelligente e pesca dai Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino agli X-Men della Marvel, con una Roma monumentale e verace a fare da sfondo, per una volta non in veste di cartolina acchiappa-turisti, ma cuore pulsante della narrazione visiva. La sua epica in costume (impreziosita da un’emozionante colonna sonora firmata da Michele Braga) è destinata a polarizzare un pubblico e un sistema produttivo nostrani che non hanno mai davvero fatto i conti con la possibilità di fare propri simili registri visivi e narrativi.
Tra i film altrettanto magniloquenti che sono stati prodotti in Italia l’ultimo a venirmi in mente in ordine di tempo è il Barone di Munchausen di Terry Gilliam (1989), girato in gran parte a Cinecittà, che però fu un flop aziendale. Sul perché un fantasy colossale non possa o non debba funzionare nel nostro Paese sarebbe da scrivere una riflessione a parte, fatto sta che le sale in cui vengono proiettati i blockbuster d’oltreoceano sono spesso piene ed entusiaste, quindi non può essere un problema soltanto relativo al gusto del pubblico.
Freaks out non è un film perfetto, ma ha il merito di tirare dritto alla meta e di non sprecare un solo centesimo del suo imponente budget. Certo, di tanto in tanto la coesione drammaturgica perde qualche pelo, specie quando si concede qualche strizzata d’occhio di troppo ai tòpoi del genere, ma è il prezzo da pagare per la sua natura di ibrido, di generoso e pirotecnico palco di frontiera. D’altronde il più grande peccato, per un film che celebra l’imperfezione e le sue risorse, sarebbe proprio quello di essere inappuntabile.
La sua tesi è semplice ma efficace: ognuno di noi ha, dentro o fuori di sé, un “freak” che lotta per essere apprezzato e accettato. Nella logica dei cinefumetti sono le scelte di ognuno a farne un eroe o un villain. Le due figure hanno spesso molto in comune, e attraversano confini sottili in entrambe le direzioni, ma è la compassione a tracciare la linea di demarcazione più profonda tra loro. Questa dialettica da cinecomic può risultare semplicistica dinanzi alla complessità dei nostri tempi, ma sceglie bene i suoi avversari, perché non ne viene mai bene a concedere troppo dialogo ai nazisti. Lo sa Tarantino, lo sa anche Mainetti, tanto vale ricordarlo al grande pubblico una volta di più. Con buona pace della commedia all’italiana e dei drammi che da più di quarant’anni scandagliano la crisi d’identità del ceto medio.