Il candore di un paesaggio innevato che lascia il posto a una poltiglia di fango. Negli ultimi anni alcune delle più belle storie proposte dal calcio nordico sono finite così. Spogliati dall’aurea quasi fiabesca che li caratterizzava, questi racconti del focolare si sono trasformati in inchieste di polizia giudiziaria. La più recente e clamorosa ha riguardato l’Islanda, ovvero l’ultima grande sbandata calcistica presa dagli appassionati di tutto il mondo. La nazionale di un paese di 400mila abitanti capace di arrivare ai quarti di finale di Euro 2016 e diventare, due anni dopo, lo stato più piccolo al mondo a partecipare alla fase finale di un Mondiale. È stato raccontato in tutte le salse il modello che ha permesso all’Islanda di passare, come dicono gli inglesi, “from zero to hero”, e il loro viking clap (o geyser dance che dir si voglia), diventato un’icona pop, in alcuni casi anche un po’ stucchevole per l’ossessività con la quale è stato proposto e riproposto dai media. Oggi questo simbolo si ritrova irrimediabilmente sfregiato dalle accuse di stupro e molestie sessuali rivolte ad alcuni giocatori appartenenti alla generazione d’oro del calcio islandese.
Il termine favola andrebbe abolito dalla terminologia della narrazione calcistica per abuso del suo utilizzo. Recentemente lo si è visto accostato anche allo Sheriff Tiraspol, quindi manca solo la nazionale del Qatar e lo svilimento del termine sarà completo. L’Islanda non è mai stata una favola, tanto meno un miracolo. Arnar Bill Gunnarsson, responsabile del calcio giovanile della KSÍ (la Federcalcio islandese), disse una volta che ricondurre l’exploit della nazionale a simili termini era riduttivo e fuorviante. “Non c’è niente di sovrannaturale, né esiste un qualsivoglia intervento divino, alla base di una politica di programmazione e di investimenti inaugurata oltre dieci anni fa”. Quella dell’Islanda è una storia di successo, di competenza e di visione a lungo termine. Soprattutto, è una storia entrata nell’anima di un paese intero, e proprio questo processo di interiorizzazione e di condivisione è alla base del turbamento senza precedenti provocato nella società islandese dallo scandalo fatto scoppiare da Thorhildur Gyda Arnarsdottir.
La scorsa estate Arnarsdottir ha dichiarato in diretta televisiva di essere stata aggredita e molestata sessualmente nel 2017 da un giocatore della nazionale islandese. Nel giro di cinque giorni il nome dell’aggressore è uscito sui media: si tratta di Kolbeinn Sigthorsson, il bomber all-time della nazionale islandese. Nel frattempo Hanna Bjorg Vilhjalmsdottir, presidentessa del Comitato per l’uguaglianza di genere dell’Associazione insegnanti, ha pubblicato sulla rivista Visir un articolo nel quale raccontava la storia di una donna di 34 anni che dichiarava di essere stata stuprata nel 2010 in hotel di Copenaghen da due calciatori della nazionale, uno dei quali diventato un simbolo della menzionata generazione d’oro. La donna aveva pubblicato qualche mese prima la sua storia su Instagram usando il soprannome di Dalia per mantenere l’anonimato. La confessione, riportata da The Athletic, è raccapricciante, ma solo grazie all’articolo di Vilhjalmsdottir, che conosce personalmente Dalia, la questione ha assunto rilevanza nazionale, tanto da convincere la polizia a riaprire il caso (all’epoca abbandonato quasi subito) sulla base della scoperta di nuovi elementi e della presenza di nuove testimonianze. Quanto ad Arnarsdottir, è stato reso pubblico che Sigthorsson aveva precedentemente raggiunto un accordo con la di lei famiglia per evitare la denuncia (il Mondiale in Russia era alle porte), pagando circa 18mila euro all’Associazione Stigamot che si occupa di violenza contro le donne. Sigthorsson ha ammesso di aver adottato, nella sera incriminata, un comportamento “non esemplare” nei confronti di Arnarsdottir e di una sua amica, negando tuttavia qualsiasi accusa di molestia sessuale.
Alla gravità delle accuse riportate, presto integrate da un dossier con nuovi casi che Vilhjalmsdottir sottoporrà alla KSÍ, si è aggiunto il comportamento della Federazione, soprattutto dell’ex presidente Gudni Bergsson, che ha tenuto all’oscuro anche parte dello stesso board in merito alle denuncia di Arnarsdottir. Una volta deflagrato lo scandalo, Bergsson non ha potuto fare altro che dimettersi, seguito a breve da tutti i 15 membri del comitato. Un danno di immagine che la nuova presidentessa Halldóra Vanda Sigurgeirsdóttir, prima donna ad assumere la carica dopo essere stato anche la prima nel paese ad allenare una squadra maschile di calcio, sta cercando di aggiustare attraverso una decisa politica di – sono parole sue – “cambiamento culturale”. Ci sono stati giocatori, tra cui lo stesso Sigthorsson, non convocati per le recenti partite e, seppure non sia stato dichiarato ufficialmente, la ragione riguarda il loro coinvolgimento (accertato o presunto) in casi di molestie sessuali. La stessa Vilhjalmsdottir è stata invitata dalla Federazione a un incontro con l’attuale c.t. Arnar Viðarsson per indicare se qualche elemento della rosa figurasse nel dossier in suo possesso. Una linea non gradita da tutti: Johann Berg Gudmundsson, attuale centrocampista del Burnley, ha rifiutato la convocazione per solidarietà nei confronti di colleghi esclusi senza mai essere stati formalmente accusati di niente.
L’Islanda viene spesso descritta come un paradiso terrestre, e in un paradiso queste cose non possono succedere. Questa frase riassume la filosofia contro la quale si batte il cambiamento culturale di cui parla Sigurgeirsdóttir. Gli attacchi contro quelli che una volta erano gli eroi di un intero paese hanno creato una profonda lacerazione in Islanda, con diversi tentativi di spostare la pressione sulle vittime. “È vero che si tratta di 2-3 giocatori coinvolti su 35, quindi nemmeno 10% della squadra”, ha detto Sigurgeirsdóttir, “ma è innegabile che quanto accaduto abbia sfregiato il nostro calcio. Dobbiamo lavorare perché sia fatta giustizia, ma anche per restituire al calcio la credibilità che merita”. L’ultimo match casalingo dell’Islanda ha fatto registrare 1.697 spettatori. È vero che la nazionale ha perso 11 delle ultime 16 partite e che si trova già automaticamente eliminata dalla corsa al Mondiale 2022, ed è altrettanto vero che un avversario come l’Armenia non possa attirare grandi folle. Tuttavia, si tratta della partita ufficiale con meno pubblico dal 1997. Qualcosa si è indubbiamente rotto.
Pur se meno note a livello internazionale, anche le storie di Östersunds e RoPS Rovaniemi sono finite nel fango dopo aver appassionato numerosi cultori del calcio meno mainstream. Nel 2018 gli svedesi dell’Östersunds diventarono la squadra simpatia dell’Europa League riuscendo a superare la fase a gironi prima di uscire ai sedicesimi contro l’Arsenal, espressione di una città grande 68 volte quella sita nella provincia dello Jämtland. Un’ascesa dal nulla costruita sul campo da Graham Potter (oggi protagonista in Premier con il Brighton & Hove Albion) e nella stanza de bottoni da Daniel Kindberg. La politica di quest’ultimo era particolare, in quando alla simbiosi con il territorio e la popolazione univa una particolare attenzione al tema dell’integrazione, concretizzatasi nel corso degli anni in iniziative a favore dei rifugiati, contro l’omofobia e la violenza sulle donne nonché, più in generale, di unione tra sport e cultura. Non a caso il simbolo della squadra, che nel proprio staff annoverava anche un mediatore culturale, era l’iraniano Saman Ghoddos, un passato caratterizzato da problemi di droga superati grazie al calcio. Ma pochi mesi dopo l’exploit europeo Kindberg è stato arrestato per frode aggravata e truffa. Fatture false, altre gonfiate per ottenere la licenza di iscrizione della squadra nell’Allsvenskan (la Serie A svedese), irregolarità nei trasferimenti. Senza il suo deus ex machina, l’Östersunds si è ritrovato sulla soglia della bancarotta, riuscendo faticosamente a salvarsi prima di tornare nell’anonimato da dove era improvvisamente uscito.
Nel 1990, folgorato dal Camerun visto a Italia 90, l’allora presidente del RoPS Rovaniemi Jouko Kiistala decise di portare un elemento di quel calcio africano, all’epoca definito “il calcio del futuro”, a giocare nel Circolo Polare Artico. Ci riuscì quattro anni dopo grazie ai buoni uffici di Roger Milla, ingaggiando lo zambiano Zeddy Saileti. Era l’inizio di una bella storia di integrazione che nel corso degli anni portò alla nascita, nella città di Babbo Natale, di una piccola enclave di zambiani, tutti tesserati per il RoPS. La squadra di africani nel gelo del Grande Nord: materiale da film di buoni sentimenti. Ma era tutto posticcio e lo si scoprì nel 2011, quando un’indagine sul calcioscommesse nel calcio finlandese ebbe nel RoPS uno dei suoi epicentri. Rispetto ad altre realtà, l’impatto emozionale suscitato del vedere le volanti della polizia di Rovaniemi arrivare ad arrestare i giocatori direttamente al campo di allenamento non aveva paragoni. Degli otto condannati per match fixing, sei erano zambiani. Zaileti, individuato come l’anello di congiunzione tra corrotti e corruttori (un gruppo appartenente alla criminalità organizzata di Singapore), era nel frattempo riuscito a scappare e tornare nello Zambia. Lontano dalla neve ma con il fango appiccicato addosso.