“Di quest’opera mi sono innamorato quando avevo quattordici anni”. Così Stefano Bollani, presentando il suo Piano variations on Jesus Christ Superstar, personale rilettura dell’opera-rock di Andrew Lloyd Webber più celebre della storia, apre il suo concerto di Lamezia Terme organizzato da A.M.A. Calabria nell’ambito del 44esimo MusicAMA Calabria: “Il gruppo rock ingaggiato per suonare l’opera – scherzosamente prosegue il musicista toscano – era di Joe Cocker: Webber l’ha chiamato perché Cocker in quel periodo era fermo e così rischiavano di diventare tutti tossicodipendenti”.
Sistema dunque lo sgabello, che però non scende e non sale, passano i secondi e ne nasce ovviamente una gag: “Il primo quarto d’ora passa così: è un’astuzia della musica contemporanea italiana, è proprio scritto in partitura!”, e apre infatti, come da preludio, con un pezzo proprio, una serie di ripetuti arpeggi che si succedono cromaticamente. Senza quasi farsene accorgere scivola poco dopo nel primo dei pezzi cantati di Jesus Christ, che come già preannunciato varia fin da principio aggiungendovi numerose linee originali: il brano è quel Heaven on their minds, intonato dalla voce di Giuda, che Bollani bada bene a rispettare soprattutto nelle sue preziosità ritmiche. Non mancano anche qui le variazioni su tema, che da un jazzista del suo calibro equivalgono a libere e fantasiose improvvisazioni: Bollani le vive in modo viscerale, la sente nel corpo al punto da alzarsi in piedi e disporre della tastiera come una naturale estensione delle sue smisurate abilità fisico-musicali.
La bellezza e la commozione toccano le più intime corde quando a giungere è il momento di Everything’s alright, il brano cantato forse più celebre dell’intero musical, quel meraviglioso pezzo in 5/4 intonato dalla delicata voce di Maria Maddalena e che nelle mani di Bollani riceve una nuova luce, un nuovo senso, un nuovo lirismo. Gli Hosanna dei discepoli, che giungono a interrompere il minaccioso This Jesus must die di Caifa, risultano nella rilettura di Bollani, come lui stesso chiarisce al pubblico senza fermare le mani sulla tastiera, addirittura inopportuni: “A volte i seguaci possono risultare più fastidiosi dei cattivi, o io almeno la intendo così”.
Le interpolazioni originali del pianista proseguono senza soluzione di continuità ma senza mai esagerate invasioni di campo: le sue improvvisazioni, che spalma uniformemente lungo tutto il sentiero webberiano e che vivono in un grande e naturale equilibrio con la partitura originale, non risultano mai eccessive. “Di Ponzio Pilato si è sempre parlato male, ma sapete, negli ultimi tempi è stato anche rivalutato: almeno si lavava le mani!”: è poi con l’ennesima delle sue uscite comiche, capaci di trasformare un concerto in una partitura di teatro-musicale, che Bollani apre il brano con cui Webber fa esordire il celebre prefetto romano.
Quanto swing, ancora oltre, nell’aria d’amore di Maria per Gesù, I don’t know how to love him, quanta continua, umana, sofferta contrazione e distensione, quasi fosse il respiro della donna, della persona che sola in tutta la millenaria storia del Cristo si pone, come giustamente ricorda Bollani, il dubbio, la domanda sul come amarlo, sul come rapportarsi a lui, rendendosi effettivamente conto che il suo sia un genere di amore diverso, probabilmente superiore.
“Dentro quest’opera c’è davvero tutto: apre con un pezzo rock e finisce con una danza irlandese”, specifica Bollani, ed ecco che la resa pianistica di Jesus Christ Superstar tenta, riuscendoci, di restituire quel “tutto” specialmente da un punto di vista stilistico, rispettandone l’anima melodica, la forte carica percussiva e le enormi possibilità armoniche che il grande pianista non si lascia in alcun modo sfuggire, andando a farcire la partitura originale con una ricchezza di suoni “aggiuntivi” tra studiate dissonanze e, specie nei finali, felicissime soluzioni accordali.
Erode è poi l’altro grande cattivo della storia, al quale, come fa notare Bollani, Webber cuce addosso la musica dei cattivi per eccellenza, il jazz: un pezzo di vaudeville per verità che libera tutta l’energia creativa del musicista, a tal punto da portarlo, per chissà quali assurde connessioni, a stravolgere la scaletta interpolando celebri pezzi del miglior Johnny Dorelli, che Bollani prendendosi d’entusiasmo si mette di gusto a cantare. È così che i registri del concerto cambiano di continuo, e dal burlesque si transita senza preavviso nelle più cupe atmosfere dei diabolici temi in coda d’opera, per poi riaffiorare, ridiscendere e nuovamente perdersi in vertiginose improvvisazioni.
È in chiusura che Bollani, su oniriche armonie di quinta diminuita, gioca e riassume tutti i temi dell’opera come fossero reminiscenze in un sogno senza fine, in una sorta di soggettiva musicale che pone il pubblico nel punto di vista del protagonista facendogli vivere le più profonde percezioni. E poi? Poi, dopo cascate di applausi, è gioco, puro scherzo e follia: quel vizio antico di farsi indicare dieci brani dal pubblico ed eseguirli estemporaneamente lo porta a sovrapporre Birdland con la Rhapsody in blue e Goldrake, Il volo del calabrone con Heidi. Un unicum concertistico e teatrale che giunge a toccare anche la produzione del mitologico Duccio Vernacoli, le cui libere traduzioni dei più celebri successi pop angloamericani Bollani ripropone con indomita ironia. Un genio del nostro tempo, un musicista che sembra giunto da altre dimensioni per stupire, affascinare, sbalordire, conquistare.
Photo credits: AMA Calabria-Federico Losito