Mi auguro che non succeda alla Boccassini quello che è successo a Borsellino: la disponibilità a rendere testimonianza va colta quanto prima.
Nelle pagine del libro La stanza numero 30 Ilda Boccassini ricostruisce, tra le altre, una vicenda cruciale nella storia recente d’Italia: nel 1994 il pentito Cancemi parla dei soldi che Berlusconi elargisce generosamente a Cosa Nostra, indicando il tramite che li fa arrivare a Palermo, partono le indagini per verificare le dichiarazioni del collaboratore, indagini apparentemente semplici, ma il 21 marzo 1994 (primo giorno di primavera!) l’indagine viene bruciata da un articolo a firma Bolzoni-D’Avanzo su La Repubblica. Siamo a cinque giorni dal voto che avrebbe decretato la vittoria di Berlusconi e la successiva formazione del suo primo Governo.
Come ha già scritto su questo giornale Peter Gomez, la Boccassini nel libro rivela di sapere il nome di chi allora contribuì a bruciare l’indagine mettendo a disposizione dei giornalisti quel verbale segreto, ma omette di farlo. Condivido la considerazione fatta da Gomez: è verosimile che questa scelta sia motivata dal desiderio di rendere una piena testimonianza alle Procure che hanno ancora oggi indagini aperte sui crimini commessi in quegli anni. E proprio per questo non ho potuto non pensare ad un altro episodio: il 25 giugno 1992, presso la Biblioteca comunale di Palermo, prendeva la parola Paolo Borsellino e sarebbe stata l’ultima volta.
Tra l’altro, disse: “In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita”.
Sappiamo che questa disponibilità, questa urgenza di testimoniare, sarà vanificata dalla strage del 19 luglio: in quei 25 giorni, nessuno di coloro che avrebbero potuto (e dovuto!) farlo chiamò Borsellino a testimoniare. E sapere il perché sarebbe importante ancora oggi.
Non si perda tempo allora! Ascoltare nelle sedi appropriate la testimonianza della Boccassini sul punto è doveroso e urgente. A cosa servirà? Ad arricchire il quadro di coloro che in quel momento storico, e cioè a cavallo tra il 1992 ed il 1994, lavorarono per nascondere la verità e farne emergere una addomesticata, funzionale ad un certo modo di gestire la democrazia in Italia. Perché Cosa Nostra avrà pure messo le bombe tra il ’92 e il ’93, ma non si è occupata dei depistaggi, di bruciare le indagini, di avvelenare le Procure, di confondere l’opinione pubblica, di trarne finalmente rendite politiche.
Un giorno, accanto all’elenco puntuale di tutti i mafiosi condannati in via definitiva per le stragi di quegli anni, comporremo un elenco altrettanto dettagliato di quanti in quegli anni e in quelli successivi, occupando ruoli istituzionali, contribuirono al mancato, definitivo, successo dello Stato sulle mafie.
Che Berlusconi per anni abbia versato soldi a Cosa Nostra oggi non è nemmeno più una notizia, ma nel 1994 lo sarebbe stata eccome, se la si fosse data a riscontri investigativi ottenuti, invece di offrirla, come facilissimo bersaglio, a quanti allora come oggi liquidano le parole dei pentiti come immondizia senza valore.