Dopo aver lasciato tutti con il fiato sospeso, anche l’Italia alla fine firma insieme ad altri 22 Paesi un accordo per bloccare, entro la fine del 2022, nuovi investimenti all’estero legati all’energia da carbone, petrolio e gas. Ma il documento parla di ‘combustibili fossili non abbattuti’ (unabated fossil fuels), le cui emissioni, cioè, non possono essere abbattute attraverso tecnologie come, ad esempio, la cattura e lo stoccaggio di anidride carbonica (Carbon capture and Storage, Ccs). Tradotto: Eni potrà ricevere sussidi pubblici per progetti di cattura e stoccaggio fuori dall’Italia, ricevendo un trattamento di riguardo, dopo l’articolo 127 della legge di Bilancio che prevede un Fondo per la transizione industriale da 150 milioni. Destinati, questi ultimi, alle imprese “con particolare riguardo a quelle che operano in settori ad alta intensità energetica” e per investimenti anche in progetti di “cattura, sequestro e riutilizzo della CO2”. Proprio come quello che Eni vuole realizzare a Ravenna, pompando anidride carbonica liquida nei giacimenti di gas esauriti al largo delle coste. Così, se ong e associazioni concordano sul fatto che quello firmato a Glasgow sia comunque un accordo positivo per gli obiettivi di decarbonizzazione, si sottolineano anche alcune possibili scorciatoie. L’Italia, comunque, ha evitato di rimanere indietro anche rispetto al Regno Unito, insieme al quale ha organizzato la Cop26. A firmare il documento anche Usa, Canada, Finlandia, Danimarca, Svizzera, Portogallo, Slovenia insieme alla Repubblica di Costa Rica, Etiopia, Figi, Mali, Isole Marshall, Nuova Zelanda, Moldavia, Sud Sudan, Gambia e Zambia. E istituzioni finanziarie pubbliche, come la Banca Europea per gli Investimenti. Pesano molte assenze importanti. Non solo Cina, India, Russia, ma anche Giappone, Corea, Francia e Germania. Le ragioni, dietro i numeri sugli investimenti all’estero di questi Paesi.
PER LE ONG POSITIVE LE FIRME, MA DIVERSE LE SCAPPATOIE – Secondo Oil Change International “se implementata in modo efficace, questa iniziativa potrebbe sottrarre più di 17 miliardi di dollari all’anno all’industria fossile”, oltre ad andare nella direzione auspicata dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE). ReCommon mette l’accento su una serie di “scappatoie da monitorare e per le quali sarà necessaria una forte pressione internazionale”. Oltre al fatto che il documento prevede ‘eccezioni in circostanze chiare e circoscritte’ rimesse alla discrezionalità dei soggetti firmatari, la questione del tempo. “Un anno è lungo e l’agenda di Sace (l’agenzia pubblica italiana di credito all’esportazione) è ricca di valutazioni riguardanti possibili finanziamenti a progetti fossili devastanti, alcune delle quali già in fase avanzata e altre in fase preliminare” spiega ReCommon. Fra questi l’Arctic LNG-2 nell’artico russo, mega-progetto di liquefazione di gas naturale nella penisola di Gydan, l’oleodotto EACOP, che dovrebbe tagliare in due Uganda e Tanzania. “Riuscirà Draghi a mettere le mani nelle tasche di Sace e non in quelle delle cittadine e cittadini italiani? Riuscirà a mettersi di traverso al business as usual di Eni, Snam, Saipem e Nuovo Pignone?” commenta Simone Ogno di ReCommon.
IL NODO ‘CATTURA E STOCCAGGIO’ – E poi c’è quel termine ‘unabated’, “una scappatoia enorme per tutte quelle società fossili – scrive ReCommon – che vorrebbero proseguire con il business as usual grazie a tecnologie ancora in fase di sviluppo come la cattura e lo stoccaggio del carbonio”. “Si tratta di un’iniziativa molto significativa perché riguarda non solo il carbone ma tutti i combustibili fossili” spiega a ilfattoquotidiano.it Mariagrazia Midulla, responsabile Clima ed Energia di Wwf Italia, secondo cui, però, nel documento non c’è “un sostegno alla cattura e allo stoccaggio della CO2”, ma è stata inserita “una formula che viene normalmente usata in questi casi”. E aggiunge: “Certo, così si fa un piacere a Eni”. Chiara, poi, la sua posizione sul tema: “I progetti di abbattimento delle emissioni sono pochissimi, costosissimi e spesso fallimentari”. Proprio per questo non si reggono in piedi “senza che intervenga lo Stato – spiega – ma non si vede perché i soldi dei contribuenti debbano andare a sostegno del passato e non delle tecnologie del presente e del futuro”. Ricordando anche il dibattito in Italia, già in un briefing con la stampa, la responsabile Clima ed Energia di Wwf Italia, aveva commentato: “Piuttosto che continuare a dire che bisogna investire sul nucleare o sulla cattura e stoccaggio del carbonio, ci dicano come sono stati spesi i soldi investiti finora in questi progetti e con quali risultati”.
GLI INVESTIMENTI – Pesano molte assenze importanti. Anche quella della Germania (fino all’ultimo ‘indecisa’), che pure ad aprile 2021 aveva annunciato (insieme a Gran Bretagna, Spagna, Olanda, Danimarca e Svezia) lo stop alle garanzie pubbliche per chi investe all’estero nelle fossili. Ma che pure ha interessi sul gas. A partire da quelli nel gasdotto Nord Stream 2, che dalla Russia raddoppierà le scorte di gas verso l’Europa. Berlino, poi, condivide con Parigi (che pure non ha firmato) la scelta sospesa sull’Arctic LNG-2 per l’estrazione di gas in una delle aree dall’ecosistema più fragile dell’intero Artico siberiano.
Per capire le ragioni delle scelte di molte nazioni, insomma, basta dare un’occhiata a quelle che in questi ultimi anni hanno investito di più all’estero, proprio in progetti legati a carbone, petrolio e gas. Pochi giorni fa, una ricerca di Oil Change International e Friends of the Earth US ha rivelato che tra il 2018 e il 2020, le istituzioni finanziarie pubbliche internazionali dei paesi del G20 e le banche multilaterali di sviluppo hanno sostenuto con almeno 188 miliardi di dollari (una media di 63 miliardi all’anno) progetti legati ai combustibili fossili all’estero. Un sostegno superiore di due volte e mezzo quello per le energie rinnovabili (in media di 26 miliardi di dollari all’anno). Il 51% delle finanze pubbliche internazionali per i combustibili fossili è confluito in progetti di gas (32 miliardi di dollari all’anno, più di tutti i finanziamenti per le energie rinnovabili messi insieme). Il carbone ha ricevuto 8 miliardi di dollari l’anno. L’Italia, per esempio, ha finanziato progetti per 2,8 miliardi di dollari l’anno. Tra chi non ha firmato c’è il Giappone (10,9 miliardi di dollari all’anno), Corea (10,6 miliardi) e Cina (7,6 miliardi di dollari/anno), che sono i maggiori fornitori di finanziamenti pubblici internazionali per i combustibili fossili nel G20. Il rapporto fa emergere anche un aspetto interessante: “La maggior parte del flusso dei finanziamenti ai combustibili fossili è andata ai paesi più ricchi”, smentendo le affermazioni dell’industria fossile “secondo cui questo denaro sostiene l’accesso all’energia o lo sviluppo”.