Diritti

Gli imputati potranno svolgere lavori di pubblica utilità nei musei: ecco cos’è la ‘messa alla prova’

Ha destato attenzione la notizia dell’accordo siglato tra il Ministero della Giustizia e quello della Cultura volto a far svolgere lavori di pubblica utilità in 52 siti museali in giro per l’Italia a imputati in messa alla prova. Sono numeri piccoli, che vedranno 102 persone beneficiare dell’iniziativa e che sono plausibilmente destinati ad aumentare.

In cosa consiste l’istituto della messa alla prova? Consiste nella possibilità per una persona imputata per reati di minore gravità e allarme sociale – quelli punibili fino a quattro anni di pena edittale – di chiedere al giudice di sospendere il procedimento penale nei suoi confronti. Si rinuncia all’azione penale, a procedere con la macchina investigativa, ad accertare la verità. L’imputato rinuncia a difendersi e viene messo alla prova per un certo periodo di tempo. Se la prova avrà buon esito, il reato sarà estinto.

Nel concreto, la persona verrà affidata ai servizi sociali per lo svolgimento di un programma che, al contrario di quello penitenziario supervisionato dagli educatori del carcere, si compie all’interno della comunità e non nel chiuso di quattro mura. Dovrà osservare le prescrizioni che le vengono impartite, svolgere azioni di riparazione del danno commesso, attività di rilievo sociale su base volontaria. Nonché essere impegnata in lavori di pubblica utilità, compatibilmente con la propria situazione lavorativa, di studio, di famiglia e di salute. Quei lavori che da oggi in 102 potranno effettuare a contatto con luoghi portatori di alta cultura.

È la prima volta che un protocollo di questo tipo viene firmato dal Ministero della Giustizia con un altro Ministero. La ministra Marta Cartabia ha sottolineato la valenza simbolica di questo gesto: il reato, la violazione delle norme condivise, crea una frattura che riguarda l’intera società e così deve fare ogni tentativo di riparazione del danno effettuato.

La messa alla prova per imputati adulti esiste dal 2014. Nel processo penale minorile aveva dato ottima mostra di sé fin dal 1988, anno dell’entrata in vigore del codice di procedura penale specifico per i minorenni autori di reato. E sempre più spazio ha preso anche nel settore degli adulti, che oggi vede oltre 23.700 persone in messa alla prova e oltre 24.600 sottoposte alle pratiche necessarie per la sua concessione.

Nel 2014 il legislatore la introdusse nel processo penale degli adulti sotto la spinta della condanna inflitta all’Italia l’anno precedente dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il sovraffollamento delle carceri (nella sua azione deflattiva della macchina giudiziaria, la messa alla prova interviene ben prima che si arrivi all’esecuzione della pena carceraria). Sulla stessa spinta introdusse alcuni paletti all’uso della custodia cautelare in carcere, un’estensione a tempo della liberazione anticipata per buona condotta e altre riforme che tutte insieme disegnavano un quadro articolato di interventi volti ad alleggerire il sistema penitenziario e a elevare la soglia di tutela dei diritti delle persone detenute.

La riforma del processo penale entrata di recente nella fase di elaborazione dei decreti legislativi punta ad andare anch’essa, tra le altre cose, in una direzione di alleggerimento del carcere. Il Parlamento ha delegato il Governo a introdurre una serie di norme volte a rendere la detenzione quella extrema ratio auspicata da tutti gli organismi internazionali. È importante che questo accada al di fuori della spinta giudiziaria, per una scelta genuinamente politica e culturale e non per rispondere all’urgenza di una sentenza.

La legge delega prevede un incremento dell’uso della messa alla prova, così come l’utilizzo di sanzioni sostitutive della pena detentiva per tante situazioni che oggi vengono punite con il carcere e la rinuncia a ogni sanzione per reati particolarmente tenui. L’eterogeneità delle forze politiche che sostengono il Governo non ha permesso un distacco più netto dalla pena detentiva, che rimane comunque la pietra di confronto del sistema, né quella riforma complessiva del codice penale del 1930 che permetterebbe una seria depenalizzazione e una razionalizzazione del sistema.

Ma rimane preziosa la consapevolezza della ministra di come la pena carceraria non possa e non debba essere considerata la sola risposta penale possibile, essendo invece solamente la più desocializzante delle pene, con enormi costi economici e umani che pesano su tutti noi.