di Serena Verrecchia
Adesso fanno persino scalpore le dichiarazioni di Giancarlo Giorgetti (“Draghi potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto in cui il Presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole”), come se negli ultimi nove mesi si fosse parlato anche di altro. Mario Draghi uomo della provvidenza, Draghi faro dell’Europa, Draghi premier oltre il mandato, Draghi Presidente della Repubblica, Re Sole, dictator d’eccezione, sovrano assoluto.
È il leitmotiv che staziona da circa un anno su tutti gli organi di informazione: lui, primus inter imbecilles, col capo annacquato dal crisma sacro della carriera in Bce, dei partiti non ha bisogno. La politica è una seccatura, i partiti un impaccio. E non perché il governo con tutti dentro sia un allestimento scadente di progetto politico, un investimento a perdere, un’accozzaglia senza capo né coda destinata irrimediabilmente al fallimento. No, macché.
I partiti diventano un ingombro nel momento in cui lui, Mario Draghi, deve condividerci la linea del governo. Quello che Giorgetti ha simpaticamente definito “convoglio” – cioè l’Italia – va gestito come fosse una grande azienda, un’impresa. Per cui, via gli intralci, i partiti, le battaglie ideologiche, la politica.
Da un po’ sono spariti persino i nostalgici di Voltaire: “non condivido la tua idea ma darei la vita e bla bla bla”. La linea è una e va seguita pedissequamente, tutti allineati in perfetta uniforme aziendale. Le manifestazioni abolite, i conduttori televisivi (solo quelli che non applaudono alla propaganda vaccinale) messi a tacere, i sindacati umiliati, i politici lasciati a giocare tra di loro a patto che non disturbino troppo il manovratore.
Lontani i tempi in cui ci si sgolava nei salotti tv per denunciare l’individualismo di Giuseppe Conte, che pure coi sindacati ci parlava fino a notte e i tavoli politici non li snobbava. È tornato di moda il fascino dell’uomo solo al comando, specie se quell’uomo è un banchiere di fama mondiale. I politici chinano il capo, gli editori blandiscono la svolta oligarchica.
Già Renato Brunetta aveva parlato di semipresidenzialismo appena qualche giorno fa. Ma lo fanno da mesi tutti gli adulatori folgorati sulla via del neoliberismo (o qualsiasi cosa sia), solo che gli mettono ogni volta un nome diverso. Il semipresidenzialismo de facto è dunque la nuova via maestra. Col consiglio dei ministri ridotto a un conciliabolo di bollatori, il Parlamento ammassato in un’unica maggioranza extra-large e un Presidente della Repubblica che “allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole”, la restaurazione oligarchica è servita.
La democrazia moderata è il sogno proibito delle élite raffinate allergiche al popolo (che infatti chiamano populismo), che parcheggiano i loro appetiti a un passo dal potere. Il Quirinale è Cosa loro (e infatti è spuntato pure il nome di Berlusconi), ma a quanto pare lo è anche la Costituzione, che l’Assemblea costituente volle rigida ma – de facto – si troverà il modo di ammorbidire.
Ministri, politici e direttori dei giornali riscrivono l’assetto costituzionale del Paese senza prendersi neppure la briga di farci partecipare: commissariati de facto. A questo punto c’è da chiedersi cosa lorsignori vogliano fare proprio dell’ultimo, ingombrante ostacolo alla loro democrazia formato migliori: gli elettori. Che si fa di loro?
Paolo Mieli la butta lì: “E se decidessimo di non votare mai più?”. Siamo de facto a buon punto. Ma non erano gli altri gli “anti-sistema”?