“Io chiedevo non se siete credenti o non credenti, ma se siete pensanti o non pensanti. L’importante è che impariate a inquietarvi. Se credenti, a inquietarvi della vostra fede. Se non credenti, a inquietarvi della vostra non credenza. Solo allora saranno veramente fondate”. Sono le parole con le quali un grande e indimenticabile arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, gesuita come Papa Francesco, spiegava il senso della sua celebre cattedra dei non credenti.
Il porporato, il cui fecondo magistero rimane tuttora una preziosa fonte dentro, ma anche fuori la stretta geografia cattolica, sosteneva: “Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa”. La scelta di Martini, negli anni del suo episcopato ambrosiano, dal 1979 al 2002, di dare la parola ai non credenti era figlia della rivoluzione del Concilio Ecumenico Vaticano II, voluto da san Giovanni XXIII, ma condotto con mano ferma da san Paolo VI, eletto al soglio di Pietro, nel 1963, proprio dalla cattedra dei santi Ambrogio e Carlo.
Martini è stato sicuramente un esponente rivoluzionario dell’episcopato italiano, ma non solo. Le sue proposte lungimiranti, spesso erroneamente lette in contrapposizione con il magistero di san Giovanni Paolo II, non hanno trovato, durante la sua vita, quell’accoglienza e quell’attenzione che, invece, meritavano. La sua voce profetica rimane, però, un punto di riferimento e i temi da lui indicati alle gerarchie ecclesiastiche sono quelli che oggi, e sicuramente nei prossimi decenni, interrogano e interrogheranno la Chiesa cattolica.
Significativo in questo senso è l’intervento che Martini tenne, nel 1999, durante il Sinodo dei vescovi sull’Europa: “Un sogno è che il ritorno festoso dei discepoli di Emmaus a Gerusalemme per incontrare gli apostoli divenga stimolo per ripetere ogni tanto, nel corso del secolo che si apre, un’esperienza di confronto universale tra i vescovi che valga a sciogliere qualcuno di quei nodi disciplinari e dottrinali che forse sono stati evocati poco in questi giorni, ma che riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese europee e non solo europee”.
E aggiunse: “Penso in generale agli approfondimenti e agli sviluppi dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II. Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del Vangelo e dell’Eucarestia. Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, penso al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale”.
Un sogno, quello di un Concilio Ecumenico Vaticano III, rimasto, almeno finora, lettera morta. Martini spiegò: “Non sono certamente strumenti validi per questo né le indagini sociologiche né le raccolte di firme. Né i gruppi di pressione. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente. Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera”.
E concluse: “Siamo cioè indotti a interrogarci se, quarant’anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio. V’è in più la sensazione di quanto sarebbe bello e utile per i vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggi, ripetere quell’esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni”.