Non si spegne la polemica sul decreto legislativo “sulla presunzione di innocenza” approvato giovedì dal Consiglio dei ministri, che impone pesanti restrizioni alla comunicazione giudiziaria, prevedendo – tra le altre cose – che “la diffusione di informazioni sui procedimenti penali” sia consentita “solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini” e che le conferenze stampa dei procuratori capi possano tenersi solo “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti”, oltre al divieto di “indicare, nelle dichiarazioni pubbliche, indagati e imputati come colpevoli prima della condanna definitiva” a pena di pubblica ammenda e richieste di risarcimento danni. L’ultimo a intervenire è stato il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, in occasione della prima sentenza del maxi-processo Rinascita-Scott con 70 condanne inflitte in rito abbreviato: “Settanta presunti innocenti condannati“, ha commentato in modo provocatorio. E alla domanda se la nuova legge rischia di trasformarsi in un bavaglio per i magistrati, soprattutto quelli in prima linea in territori difficili, ha risposto: “A me non lega niente e non chiude la bocca. Sono una persona che non ha timore di niente e di nessuno, dico sempre quello che penso e se non posso dire la verità è perché non posso dimostrarla. Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto. Ancora in Italia non è stato negato il diritto di informazione della stampa”.
Gratteri ha anche stigmatizzato una certa ignavia degli organi di rappresentanza dei giornalisti nel farsi sentire contro le scelte del governo. “L’unica cosa che mi dispiace è che ho visto la categoria dei giornalisti, a livello nazionale e locale, molto timida nella protesta, quasi vi andassero bene queste direttive. Credetemi, mi ha meravigliato non poco questo atteggiamento timido dei rappresentanti dei giornalisti”, ha detto. E in effetti, mentre in commissione Giustizia alla Camera si discuteva dello schema di decreto, nè l’Ordine dei giornalisti (Odg) nè la Federazione italiana della stampa (Fnsi) si erano presentati a dire la propria in audizione, pur convocati. Al Fatto che gli chiedeva il perché, il presidente dell’Odg Carlo Verna rispondeva di non aver avuto tempo di prepararsi: “Non siamo soliti improvvisare su certi temi così importanti. Abbiamo mandato le nostre carte deontologiche, però non riteniamo che sia un dibattito al quale non possiamo partecipare se prima non ci danno il tempo di discuterne al nostro interno“. Mentre il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso, si giustificava con l’agenda troppo piena: “Siamo pieni di vertenze, non abbiamo avuto modo di approfondire il tema. Avremmo anche degli altri impegni, non è che siamo lì ad aspettare le convocazioni della commissione”.
Sabato si è schierata al fianco dei pm anche l’Associazione nazionale magistrati: con il decreto “sono state compiute scelte discutibili“, ha detto il presidente del sindacato delle toghe, Giuseppe Santalucia, durante la riunione del Comitato direttivo centrale. “Si è irragionevolmente irrigidita la comunicazione con la stampa dei procuratori della Repubblica”, con “regole che non renderanno un buon servizio, questo è il timore, all’esigenza di una corretta informazione su quanto accade nel processo durante la fase delicatissima delle indagini”. L’Anm dovrà essere “pronta – ha aggiunto Santalucia – a rilevare le distorsioni applicative che oggi da più parti si prefigurano e non lasciare che siano soltanto i procuratori della Repubblica a tenere alta l’attenzione su questi temi assai sensibili per l’effettività dell’assetto democratico della giustizia penale, di cui un tassello importante è proprio il rapporto con la stampa”. Un nuovo grido di allarme che si aggiunge a quello di alcuni pubblici ministeri, a partire dal consigliere Csm Nino Di Matteo, che qualche giorno fa – votando insieme a Sebastiano Ardita contro il parere positivo dell’organo sulla riforma – aveva parlato di “svolta illiberale” e di “bavaglio alla possibilità che all’informazione contribuisca anche l’autorità pubbica”, con la “sostanziale impossibilità per l’autorità pubblica di informare su quanto non è più coperto dal segreto”.