L’ultimo lavoro di Michele si farà ricordare soprattutto per la sua densità di contenuto, oltre che per il glamour che l’ha accompagnato. È un processo di risignificazione semplice ma potentissimo: chiunque lo osservi ci coglie un rimando, vi ritrova un ricordo o un’idea, uno spunto o ancora un qualcosa di personale. Perché è “una parata di esseri incantati e profondamente liberi che attraversa una terra dove non c’è passato, né futuro: solo il miracolo dell’immaginifico. Mamma me lo raccontava sempre: Los Angeles risplende di una magia senza tempo, sfiora le divinità e si fa mitologia del possibile”
“Questa è Hollywood, la terra dei sogni. Alcuni si realizzano altri no, ma voi continuate a sognare”. Quante volte vi sarà risuonata questa frase, mentre – mai paghi – guardavate l’ennesima replica di Pretty Woman. Ecco, io sentito nella mia mente la voce fuoricampo che declamava queste parole mentre osservavo i modelli della Gucci Love Parade avanzare con passo sicuro lungo Hollywood Boulevard, la “walk of fame”, la strada delle star e dei sogni per eccellenza. Sarà stata la suggestione delle 4 del mattino (ora italiana della sfilata), momento onirico per eccellenza in cui la notte non è più notte e il giorno è ancora tutto da divenire; o sarà piuttosto che in quei modelli ho rivisto la Vivienne di Julia Roberts, l’emblema della fiaba moderna per eccellenza, il sogno per antonomasia, tanto più irrealistico quanto ammaliante, che l’industria del cinema ci ha spinto ad inseguire. Così come la pellicola del 1990 ha fatto immediatamente breccia nei nostri cuori per il suo immaginario affascinante e suggestivo, lo stesso è stato per la Gucci Love Parade di Alessandro Michele. Da giorni, più precisamente dall’alba del 3 novembre (sempre ora italiana), non si parla d’altro e se io stessa sono qui a scriverne ora non è certo per un mio ritardo quanto piuttosto perché ho avuto bisogno di assimilare e metabolizzare la reale portata significativa di questa collezione colossale. Da che ho visto la sfilata le immagini dei look, dell’atmosfera, del marciapiede, delle luci a tratti abbaglianti e a tratti soffuse, dei volti noti presenti hanno affollato la mia mente, impresse indelebilmente negli occhi. L’ultimo lavoro di Michele si farà ricordare soprattutto per questa densità di contenuto, oltre che per il glamour che l’ha accompagnato.
Perché con questo défilé Alessandro Michele non ha solo omaggiato i 100 anni della casa di moda fiorentina ma ha soprattutto aperto una breccia nel guscio in cui si era aperto, esponendo un parte di sé come carne viva. Lascia l’iItalia, vola a Los Angeles perché dopo 6 anni alla guida di Gucci è pronto ad aprire un nuovo capitolo. Così svela i suoi ricordi di infanzia, quelli più intimi e preziosi, legati alla madre, che trovano nel cinema il trait d’union tra il suo vissuto personale e la storia della maison. “Mamma lavorava nel cinema come assistente di una casa di produzione. Ricordo i suoi racconti, dettagliati e scintillanti, su quella fabbrica di sogni”, ha confidato lo stilista. “C’era il pallore d’alabastro di Marilyn Monroe e la sua voce diafana. C’erano i guanti neri di satindi Rita Hayworth e i capelli di seta di Veronica Lake. E ancora l’incanto seduttivo di Rock Hudson e il trasformismo vertiginoso di Kim Novak. Tutto aveva il sapore della fiaba. A quei tempi abitavamo in una casa occupata nella periferia di Roma. Avevo bisogno di respirare. Quei racconti sovversivi mi aiutavano a squarciare il grigio. Erano la mia fuga, la mia diserzione. Da laggiù, da quel punto del mondo, Hollywood appariva come un astro luminosissimo e splendente. Nove lettere piene di desiderio”. Evocazioni, impressioni, memorie e ricordi che ha realizzato (nel senso letterale del termine) sotto forma di long dress in seta suadente bordati di pieghe, abiti in trulle drappeggiato, completi sartoriali in morbido velluto, per non parlare degli accessori, vero traino del brand. E poi ancora i pezzi propri dell’immaginario hollywoodiano per eccellenza: i lunghi guanti di raso, il boa di piume, tante piume e piumette, e copricapi di ogni foggia e stile. Tutto questo, indossato da modelli e modelle di ogni genere e taglia ma anche estrazione: in passerella c’erano infatti anche Jared Leto (protagonista, neanche a dirlo, dell’attesissimo film “House of Gucci”), Miranda July e Macaulay Culkin, l’ex bambino prodigio di “Mamma ho perso l’aereo”. Ma anche gli ospiti presenti erano a loro volta mannequin dei look di Michele, dai Maneskin a Miley Cyrus passando per Dakota Johnson, sua musa, Diane Keaton e Gwyneth Paltrow perché la moda è fatta per essere usata, portata, e quindi non c’è più distinzione tra passerella e vita “vera”.
E proprio loro, i volti di Gucci, danno un’ulteriore livello di lettura: c’è l’inclusività nel pieno del suo significato, non solo in termini di valori LGBTQ+, ma anche di codici intergenerazionali, capaci di unire “boomers”, “millennials” e “GenZ”, come si dice ora in gergo, all’insegna dei trend per eccellenza del momento. Prendete Macaulay Culkin, il suo personaggio è un cult degli anni Novanta, meme amatissimo dai 30enni di oggi, ma la sua storia è un messaggio positivo per tutti i giovani: il successo, il baratro e la forza di rialzarsi e rimettersi in piedi. E ancora, il diadema e gli occhiali a maschera, feticci dei primi anni Duemila, decennio a cui i ragazzini di oggi guardano con gli occhi innamorati. Per non parlare del vintage, passione delle 40/50enni di oggi ma anche baluardo per un presente più sostenibile, richiamato nella riproposizione dei capi che hanno fatto la storia del brand ma anche nel tailleur di velluto by Tom Ford che Gwyneth Paltrow ha tirato fuori dall’armadio per l’occasione, rispolverandolo direttamente dal 1996.
Chi più ne ha più ne metta, perché a questo punto – come in un gioco di sovrapposizioni di veline – c’è un altro livello di significato che possiamo sbloccare. Le persone che Alessandro Michele ha chiamato a sfilare per lui sono infatti soprattutto questo, persone, ma, al contempo, icone di una mitologia pagana che la macchina del cinema ha creato e lanciato in un Olimpo 2.0. Cento anni fa, mentre a Firenze Guccio Gucci apriva la sua prima bottega, a Hollywood si iniziava a creare il mito, a confezionare quel sogno che ancora oggi ci viene venduto: “Ho pensato al culto della bellezza di cui mi ha nutrito. Al dono irrinunciabile del sogno – spiega il direttore creativo -. All’aura mitopoietica del cinema. E ho scelto Hollywood Boulevard. Il mio amore irrefrenabile per il mondo classico trova su questa strada piena di stelle una sponda ideale. Hollywood è, in fondo, un tempio greco abitato da divinità pagane. Qui, attori e attrici sono celebrati come eroi del mito: creature ibride capaci di accogliere allo stesso tempo la trascendenza divina e l’esistenza mortale, l’immaginario e il reale. Sono loro gli idoli di una nuova cosmogonia contemporanea, i protagonisti di una forma di persistenza del sacro. Ancora oggi Afrodite, Teseo, Pandora e Medusa abitano nell’Olimpo di Hollywood. Irraggiungibili eppure così umani. Intorno a questi semi-dei si dispiega la città degli angeli, un luogo inondato da una luce benedetta”. E tutto torna, perché pensateci: le star del cinema vengono chiamati divi. “Divus”, in latino, è il dio.
Potremmo andare avanti ancora e ancora in questa analisi, parlando di come tutto questo si inserisca nel periodo storico che stiamo vivendo, il post-pandemia, e nel quadro più specifico del “Rinascimento” intrapreso dal mondo della moda. Ma poi, facendo sintesi, la conclusione a cui si giunge è comunque la stessa. Che questa Love Parade è un processo di risignificazione semplice ma potentissimo: chiunque la osservi ci coglie un rimando, vi ritrova un ricordo o un’idea, uno spunto o ancora un qualcosa di personale. Perché è “una parata di esseri incantati e profondamente liberi che attraversa una terra dove non c’è passato, né futuro: solo il miracolo dell’immaginifico. Mamma me lo raccontava sempre: Los Angeles risplende di una magia senza tempo, sfiora le divinità e si fa mitologia del possibile”.