Non gli è bastato presentarsi come “un island kid”, un figlio delle isole (Honolulu, nello specifico) che sono tra i luoghi messi maggiormente a rischio dall’innalzamento delle temperature terrestri. Non è servito nemmeno tornare a puntare il dito contro il suo successore, quel Donald Trump che ha deciso di ritirarsi unilateralmente dall’Accordo di Parigi nel corso del suo mandato. L’ex presidente americano e Premio Nobel per la Pace, Barack Obama, era il personaggio più atteso della giornata odierna alla Cop26 di Glasgow, ma nonostante il carisma e l’appeal che da anni caratterizzano i suoi interventi, questa volta non è riuscito a sfuggire alle accuse dei giovani attivisti per il clima che lo hanno accusato di non aver mantenuto le promesse in fatto di investimenti in favore dell’ambiente. Anche lui, quindi, è diventato parte del circolo politico del “bla bla bla” condannato da Greta Thunberg.
Nel suo intervento, anticipato dalla Cnn, l’ex presidente ha rovesciato sull’amministrazione Trump la maggior parte delle responsabilità legate ai mancati progressi degli States in tema di cambiamenti climatici, accusandola di “quattro anni di ostilità nei confronti della scienza del clima” e di aver promosso il “negazionismo climatico”: “Negli Stati Uniti, alcuni dei nostri progressi sulla lotta al cambiamento climatico si sono fermati quando il mio successore ha deciso di ritirarsi unilateralmente dall’Accordo di Parigi nel suo primo anno di mandato. Non sono stato molto contento di questo”, ha detto sottintendendo che negli anni passati si era registrato un costante progresso. Ma a rispondergli duramente contestando questa sua lettura è stata l’attivista Vanessa Nakate, che su Twitter ha postato un video di 12 anni fa in cui l’allora presidente interveniva alla Cop15 assicurando politiche per combattere il cambiamento climatico: “Quando avevo 13 anni, nel 2009, avevi promesso 100 miliardi di dollari per finanziare la lotta al cambiamento climatico. Gli Stati Uniti hanno tradito le loro promesse, questo costerà perdite di vite umane in Africa – ha scritto la giovane – Il Paese più ricco della Terra non contribuisce abbastanza ai fondi salvavita. Tu vuoi incontrare i giovani della Cop26. Noi vogliamo i fatti“.
Parole che sembrano una risposta diretta al plauso che il Dem ha voluto fare al movimento che dal 2018 vede in Greta Thunberg la leader che sfida i grandi della Terra a impegnarsi nella lotta al cambiamento climatico. “Due anni fa Greta Thunberg ha ispirato migliaia di giovani – ha infatti detto Obama – Ora il mondo è pieno di Greta. Le proteste sono necessarie, dobbiamo persuadere quelli che non sono d’accordo o che sono indifferenti”. E si è poi rivolto direttamente agli attivisti chiedendo loro di rimanere “arrabbiati, canalizzate questa rabbia, spingete sempre di più, questa è una maratona non uno sprint. Le proteste sono necessarie, le campagne con gli hashtag possono far crescere la coscienza, ma per costruire coalizioni più ampie” bisogna raggiungere anche chi “non è ancora convinto. E per persuadere queste persone non si può più solo urlare o twittare contro, o creare problemi bloccando il traffico, dobbiamo ascoltare le obiezioni e la riluttanza della gente comune, comprendere la loro realtà e lavorare con loro in modo che azioni serie sul clima non abbiamo un impatto negativo su di loro”.
Obama aveva iniziato il proprio intervento parlando della sua infanzia passata alle Hawaii per affrontare il dramma degli stati insulari a rischio scomparsa per via del cambiamento climatico. “Mentre ero presidente sono stato orgoglioso del lavoro che abbiamo fatto con i Paesi insulari, i più vulnerabili”, ha detto. “Per molti versi le nostre isole sono il campanello d’allarme“. Ancora: “Ci stanno mandando un messaggio adesso, che se non agiamo, e non agiamo in modo audace, sarà troppo tardi. Non è qualcosa distante 10, 20 o 30 anni, è adesso, e dobbiamo agire adesso“. E ha proseguito: “Penso sinceramente che non avremmo avuto un accordo così ambizioso a Parigi se non fosse stato per la volontà e la capacità dei Paesi insulari. Come cinque anni fa non abbiamo fatto abbastanza e le nostre isole sono minacciate più che mai”. E si è poi detto orgoglioso dell’attenzione che il governo Usa e il presidente Joe Biden danno alla questione.
A Glasgow l’ex presidente ha incontrato numerosi delegati di varie isole: tra i vari eventi di cui è protagonista una tavola rotonda con giovani e una con imprenditori privati. “Le isole sono come il canarino in miniera, in questa situazione. Ci stanno mandando un messaggio: se non agiamo, sarà troppo tardi”. “Tutti noi – ha quindi rimarcato – abbiamo un ruolo da svolgere, tutti abbiamo un lavoro da compiere, tutti abbiamo sacrifici da fare. Noi che siamo più ricchi abbiamo contribuito ad aggravare il problema e quindi abbiamo ora un peso in più da sostenere per aiutare e assistere coloro che sono meno responsabili o meno (economicamente) capaci, ma sono nello stesso tempo i più vulnerabili” di fronte agli effetti della crisi climatica. Protagonista sia della fallita conferenza Onu sul clima di Copenaghen, sia di quella parzialmente riuscita a Parigi nel 2015, l’ex leader della Casa Bianca non ha peraltro mancato di notare come negli anni trascorsi dall’appuntamento parigino diversi impegni siano rimasti sulla carta: “È importante riconoscere – ha osservato – come in questi 5 anni non si sia fatto abbastanza”. Ha poi citato un detto hawaiano che invita a stare “uniti per andare avanti”. Ha lodato “l’impazienza dei giovani”, “vitale” per spingere i leader del mondo ad agire contro l’emergenza climatica e a garantire il mantenimento dell’impegno a contenere il surriscaldamento della Terra entro il tetto di 1,5 gradi in più rispetto alle temperature medie dell’era pre-industriale. E non ha risparmiato critiche ad alcuni grandi Paesi assenti, come Cina e Russia: “È stato scoraggiante vedere i leader di due dei più grandi emettitori declinare persino di partecipare al programma”. In loro l’ex presidente degli Stati Uniti riconosce “una pericolosa assenza di urgenza e un desiderio di mantenere lo status quo. Questa è una vergogna“.
Nel corso della mattinata a Glasgow è stata presentata una ricerca McKinsey, secondo la quale se si superano 1,5 gradi di riscaldamento dai livelli pre-industriali, nel prossimo decennio quasi metà della popolazione mondiale sarà esposta al rischio di ondate di calore, siccità, inondazioni o carenza d’acqua, contro il 43% a rischio oggi. Secondo il rapporto, in questo scenario le zone sottoposte ad ondate di calore potrebbero registrare temperature che renderebbero impossibile lavorare all’esterno nel 25% delle ore lavorative di un anno. In uno scenario peggiore, di 2 gradi sopra i livelli pre-industriali al 2050 (oltre l’obiettivo minimo dell’Accordo di Parigi), 800 milioni di persone in più rispetto ad ora vivrebbero in aree urbane con gravi problemi idrici, a causa dell’aumento della domanda d’acqua. Circa 100 milioni di persone (1 su 7 degli agricoltori del mondo nel 2050) sarebbero esposte a gravi livelli di siccità, riducendo la loro capacità di produrre cibo. Quattrocento milioni di persone che vivono sulle coste di mari e fiumi rischierebbero inondazioni costiere, con morti e ingenti danni materiali.