Diritti

Se un coming out come quello di Spadafora fa ancora rumore, vuol dire che è necessario

Tu quella voce che si spezza la riconosci. La comprendi. Perché, in fondo, è anche la tua. Ti è capitato, almeno una volta nella vita, di non riuscire a finire una frase. Gli occhi si fanno più caldi. Il respiro azzoppa le parole. Il nodo in gola si scioglie. Poi riprendi a respirare. Ed è tutto più semplice, dopo. Anche se le lacrime ti rigano il viso. Perché non c’è vergogna, solo dignità.

Tutto questo per dire che ogni cosa mi divide dall’ex ministro Vincenzo Spadafora. Le scelte politiche, la fede – io sono ateo, contrariamente a lui – e alcuni posizionamenti che in passato me lo hanno reso inviso (e si badi, parlo di questioni eminentemente politiche). Tutto tranne quel momento in cui la voce si spezza e le lacrime si guadagnano il loro spazio in una narrazione. La sua, la nostra. Lì siamo uguali. Perché se il percorso è diverso, il punto d’arrivo di un coming out è sempre lo stesso. La liberazione. E, quindi, la libertà. Al netto di cosa ne fai, dopo, di essa.

Il coming out è sempre un atto politico. Esattamente come è un atto politico tenersi per mano con una persona del tuo stesso sesso, se sei omosessuale (come spiegava Alessandro Zan, qualche giorno fa). È un modo di dire al mondo che ci sei. Un mondo che è stato costruito nella pretesa – o, se preferite, nell’arroganza – di pensare che esiste un solo orientamento legittimo: l’eterosessualità. E invece l’ombrello di ciò che definiamo “sessualità” è molto più ampio ed è fatto di incontri, pulsioni, desideri, sentimenti che vanno oltre schemi prefissati e rigide rappresentazioni. Con tutto il rispetto per tutte le persone che vivono storie d’amore e di passione con altre del genere opposto, sia ben chiaro.

Nella narrazione biblica, Dio fece il mondo parlando. E in principio, ci dice Giovanni, “fu il Verbo”. La parola, come atto “poietico” (ovvero creativo), rende Dio simile ai poeti che attraverso il raccontare costruiscono interi universi: letterari, ma non solo. Attraverso la libera narrazione di sé, che passa attraverso a quell’“io sono”, si crea il proprio mondo. Un mondo in cui quando parli con la tua famiglia, sai che non ci sono più non detti e ti amano per chi sei davvero. In cui è possibile parlare al ragazzo o alla ragazza che ti piace. Sperare in un bacio. Dire che sì, sei tu la persona con cui voglio stare. O magari piangere, perché niente di tutto questo è accaduto, ma rialzarsi e ricominciare più forti di prima.

La differenza – prima del coming out – è che la vita, il tuo mondo, li vedevi accadere nella sfera delle tue amicizie. Come se fossi al cinema. Le storie erano sempre quelle degli altri. Ti sembrava che quelle cose, a te, non sarebbero mai capitate. E avevi paura. Della solitudine. In tal senso, il “venir fuori” è anche la fine della paura. Per questo non piace agli omofobi o a tutte quelle persone i cui commenti alla notizia sono: “che bisogno c’era di dirlo?”, “basta con queste ostentazioni”, “ma che mi interessa, i veri problemi sono altri”.

Il fatto che un coming out faccia ancora rumore è l’evidenza del fatto che è necessario. Ora più che mai. In ogni ambito, dal mondo della politica allo sport, passando per la vita quotidiana. Una società di persone più libere può far paura a chi vuole conservare quel mondo, asfittico e grigio, in cui esiste solo un orientamento possibile e fa in modo che le vite “divergenti” vivano in condizioni di disagio e discriminazione. Si chiama, appunto, omo-bi-lesbo-transfobia.

E a questo proposito: si doveva approvare una legge che contrastava i crimini d’odio contro le persone Lgbt+. Il Senato l’ha bocciata, tra scroscianti applausi e grasse risate. Applausi e risate che sono il tributo a quel vissuto che ha portato Spadafora a commuoversi. Perché dire in pubblico di essere gay è sì liberatorio, ma viene dopo un percorso. Una storia che può essere dolorosa. Quegli applausi e quelle risate, quella sguaiatezza istituzionale che fa rima con “destra” – Italia Viva compresa – sono il volto di chi questo stato di cose non vuole cambiarlo. Sono il volto della politica del dolore.

Per questo c’è bisogno di coming out. Perché dopo possiamo vivere una vita più autentica. Perché dietro ogni “io sono…”, seguito dal nome che vogliamo dare alle nostre identità, c’è un colpo di piccone a quel mondo fatto di ingiustizie, d’odio e pregiudizio. È un antidoto alla politica del dolore. E fanno bene coloro che vogliono conservare lo status quo a temere la fine del loro mondo, perché è solo una questione di tempo. Ma non temano più di tanto. Quando vinceremo, perché vinceremo, sarà solo l’inizio di un mondo migliore. Anche per loro. E i mondi migliori cominciano sempre da rivoluzioni personali. Come quella dell’ex ministro Spadafora. Come quella di tutti e tutte noi.