Nel 2017 Enrico Fierro mi scrisse una lunga e-mail. Eravamo amici dal 2009, dalla fondazione de Il Fatto. Voleva che leggessi le bozze del suo ultimo manoscritto. Si trattava di una cosa nuova, di un romanzo, non di un saggio o di un’inchiesta, come aveva scritto in passato. L’idea nasceva dal funerale di un suo amico scapolo, comunista e gaudente. Un funerale pazzo, in chiesa, ma con rito civile. A officiare un prete no-global, la musica affidata a un comune amico fascista, prima tromba del San Carlo, costretto a suonare “Bella ciao”. Un funerale da piangere e da ridere insieme.
Qualche giorno dopo si recò a casa del suo amico morto, e trovò interi scaffali occupati da cartelle piene di ritagli di giornali con i suoi articoli. La cosa lo commosse fino alle lacrime e decise così di farne un personaggio del libro che stava scrivendo, trasformandolo in un edicolante che “amava i giornali come si amano i figli”. Per gli altri personaggi del libro, esattamente 146, mi scrisse, aveva attinto ai suoi taccuini, dove per anni aveva annotato le sue storie. Ci aveva ritrovato tanta umanità, quella che spesso non rientrava negli articoli da mandare ai giornali per ragioni di spazio. Questi personaggi li aveva fatti rivivere tutti: perché sentiva di avere un debito di riconoscenza verso di loro. Verso un mondo in cui c’erano i giornali, raccontati com’erano e come erano diventati. E poi c’era il Sud, luogo della narrazione. Tanti Sud (Napoli, la Calabria, ma anche l’Albania e i Balcani).
Alla fine ne era uscita “una storia d’amore e di rabbia”. Perché nel libro c’era Frank, il protagonista, che aveva tanti tratti dell’autore che lo aveva inventato: “Frank, divorato dalla raggia – la rabbia, nel suo dialetto – è stato sempre un uomo contro. Perché il suo mondo era un altro. Quello di Peppino Matarazzo, di mestiere edicolante, che gli insegnò ad amare i giornali”. E anche di “quel vecchio professore di violino incontrato sulle rive di un fiume in Kosovo”. E poi del “maestro elementare di quel piccolo borgo sullo Jonio che spendeva i pochi soldi dello stipendio per i libri”. Oppure di “Peppino Gagliardi, che non vinse un Festival di Sanremo per colpa di una censura scandalizzata da un culo americano e procace”. Insomma, era il mondo degli sconfitti pieni di dignità e umanità che aveva incontrato nella sua vita e che aveva sempre amato.
Fu così che pubblicammo La genovese. Una storia d’amore e di rabbia. Quanto ti piaceva quel libro, e quanto era piaciuto anche a noi in casa editrice. Si apre con una dedica: “A chi è rimasto indietro perché era più avanti degli altri”. Così era Enrico, indietro con gli ultimi ma più avanti di tutti. Ciao Enrico, grazie di tutto, non ti dimenticheremo.